La casta blocca qualsiasi riforma. Solo la prevista fusione tra Banco Popolare e Banca Popolare di Milano potrebbe richiedere il pensionamento di 30 consiglieri, contro la loro volontà.
Aumenti di capitale? Scelta della sede sociale? Autonomia territoriale? Cosa sta ancora bloccando la complessa opera di consolidamento del sistema bancario italiano da più parti invocato? Nulla di tutto questo. Il vero nodo che tiene tutto ancorato allo status quo, confessa un top manager alle prese con una delle fusioni più attese del momento, sono le poltrone. Le cadreghe, per dirla con Aldo, Giovanni e Giacomo…
Secondo una ricostruzione di Corriere Economia, sono almeno 110 i posti da amministratore che dovranno essere tagliati nei prossimi mesi. Solo l’attesissima fusione tra Banco Popolare e Banca Popolare di Milano potrebbe richiedere il sacrificio di 32 poltrone, trenta consiglieri da mettere da parte contro la loro manifesta volontà. Se infatti tra Verona (24 amministratori) e Milano (23) sembra pacifico che né il presidente del Consiglio di sorveglianza della Milano, Dino Piero Giarda, né l’amministratore delegato del Banco Popolare, Pier Francesco Saviotti (quest’ultimo per sua espressa e ripetuta dichiarazione), faranno parte del progetto futuro, restano trenta amministratori assolutamente convinti della indispensabilità del proprio ruolo. Il punto è che la Banca centrale europea sostiene che un istituto come quello che andrà a formarsi può essere agilmente amministrato da un consiglio di quindici amministratori. È dunque via alle trattative. Chi resta e chi va?
Il problema però riguarda tutti i maggiori istituti italiani. Se dal novero delle prime tredici banche escludiamo le due maggiori (Unicredit e Intesa Sanpaolo, che non parteciperanno all’opera di consolidamento sul mercato domestico) e il Credem – che è una realtà particolare, molto solida, redditizia e controllata dalla famiglia Maramotti – restano dieci banche che potrebbero essere le protagoniste del prossimo risiko.
Queste dieci banche (Mps, Ubi, Banco, Bpm, Carige, PopSondrio, Creval, Bper, PopVicenza e Veneto), sommano 185 consiglieri di amministrazione. Ipotizzando che da dieci ne restino cinque, questi cinque istituti di credito potrebbero essere amministrati da cda composti da 15 componenti (se la regola della Bce vale per Banco+Bpm vale anche per le altre). Basterebbero dunque 75 amministratori per far funzionare queste nuove realtà, quando oggi ne servono 185. Ecco i 110 da congedare.
Ed ecco le resistenze, la difese dei privilegi, gli arrocchi. Perché se è vero che i casi come la Vicenza sono rari (l’ex presidente Gianni Zonin aveva un appannaggio superiore al milione di euro l’anno, l’ex amministratore delegato Samuele Sorato di 1,7 milioni), è indubbio che un posto nel consiglio di una banca vale molto (denaro) e costa relativamente poco (impegno).
Sarà necessaria una importante scrematura. Puntando più sulla qualità che sulla quantità. Se Ubi tocca tra Sorveglianza e Gestione l’iperbole di 32 consiglieri, i diciotto componenti del board della Vicenza hanno avallato negli anni ogni nefandezza, tanto che oggi la procura della repubblica ipotizza il reato di associazione a delinquere interna alla banca. Cosa guardavano questi signori? Poi, nei consigli, siedono indagati, condannati in primo grado e moltissimi portatori di interessi altrui che uniscono a modeste competenze.
Per arrivare infine alle presenze ultradecennali che alla soglia degli ottanta anni si rendono ancora disponibili a perseguire il «bene della banca»… Non è questo il modello virtuoso a cui cerca faticosamente di ispirarsi l’Europa, né è questo l’interesse della vasta platea di azionisti correntisti e risparmiatori che affidano i loro denari alle banche. È il momento di fare pulizia, in profondità, anche dando la colpa alla Bce.
di Stefano Righi
(segnalato da Nakatomy)
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Corriere della Sera