Gli attentanti di Parigi e Bruxelles nascono dalla assurda inutilità della Ue: alle grandi emergenze (come crisi economica ed estremismo jihadista) rispondono con divisioni e strategie fallimentari.
Dagli al Belgio, “Stato fallito” dall’ipertrofica e troppo complicata struttura federale, dagli alle sue divisioni linguistiche, culturali ed economiche che ostacolano la cooperazione tra intelligence, giustizia e forze di polizia.
In questi giorni biasimo e critiche al piccolo regno sembrano diventati una sorta di generale mania multimediale. Giustificata?
Naturalmente le defaillances nel sistema ci sono e sono innegabili. Ma accanirsi con tanta veemenza sul Belgio, quando purtroppo tutti i paesi vittime di grandi attentati, dalla Francia alla Spagna, dalla Gran Bretagna agli stessi Stati Uniti, chi più chi meno hanno mostrato pecche e zone d’ombra, appare eccessivo: quasi la ricerca di un facile capro espiatorio per far dimenticare chi è il vero colpevole della fallita, questa sì, lotta al terrorismo jihadista.
Se c’è un colpevole da cercare e denunciare, questo si chiama Europa, anzi non-Europa. La riunione straordinaria a Bruxelles dei ministri Ue della Giustizia e degli Interni ne è l’ennesima riprova: tanti auspici e anche tanta buona volontà a parole ma le decisioni concrete continuano a latitare nonostante l’urgenza di una risposta incisiva.
Il paradosso dell’Europa è sempre lo stesso: sa perfettamente cosa dovrebbe fare per superare le tante crisi che l’assediano: integrarsi di più, affidarsi a politiche sempre più comuni di fronte a un fenomeno che è a un tempo nazionale, transnazionale e globale. Però non ci riesce. Peggio, tra nazionalismi e populismi dovunque all’arrembaggio, di recente sembra averne perso persino la voglia: a fatti, non a chiacchiere, che abbondano sempre.
Quando si tenta di farla, la politica di sicurezza europea è al massimo intergovernativa. Quando si prova a schiacciare il tasto di una vera integrazione e di una seria cooperazione, le decisioni vanno in tilt. Ancora niente Pnr, il famoso registro europeo dei passeggeri aerei ritenuto tra gli strumenti più utili di prevenzione delle minacce, bloccato nell’europarlamento. Scarsi e intermittenti scambi di informazioni tra le varie intelligence e polizie europee. Le banche-dati europee ci sono, dal SiS del sistema Schengen a quello di Europol ma si usano poco o niente. Da gennaio è in funzione anche il Centro europeo dell’antiterrorismo: chi l’ha visto?
Di politica comune della difesa si parla invano e a intermittenza dagli anni ’50. Di quella anti-terrorismo dagli anni ’80. Di quella dell’asilo e dell’immigrazione dagli anni ’90. Anche quella estera resta l’araba fenice.
Fino a che l’Europa sarà spaccata tra chi è pensa che le minacce si affrontano meglio rinchiudendosi dentro i confini nazionali e chi invece ritiene che solo l’Unione sia la dimensione minima per una reazione efficace e vincente, in altre parole fino a che non ci sarà fiducia reciproca nella credibilità ed efficienza dei vari sistemi nazionali di sicurezza, saranno solo i terroristi a sfruttare a proprio vantaggio la libera circolazione delle persone e dei capitali, cioè le maggiori conquiste dell’Europa per colpirla meglio. Quanti attentati ci vorranno prima che l’Europa, invece che con il Belgio, cominci a prendersela con se stessa e agisca davvero di conseguenza?
di Adriana Cerretelli
Fonte: Il Sole 24 Ore