Le vere star della Fiera del Libro di Torino non sono più gli scrittori, romanzieri o saggisti, comunque intellettuali umanisti. Interessano i global scientist: gli scienziati che scrivono, soprattutto fisici ed astrofisici, «quei visionari capaci di perlustrare luoghi sconosciuti, ai confini della conoscenza».
I segnali erano già evidenti da tempo, ma il nuovo Salone del Libro che s’apre domani a Torino certifica definitivamente il cambio di paradigma culturale. E per capire di cosa si tratti bisogna andare a trovare l’ospite più richiesto, la big star che sta vagliando con pose da divo le innumerevoli richieste di intervista: il robottino iCub, il più intelligente tra le macchine intelligenti. «Tempo un paio d’anni e vi potrà rispondere», scherza Roberto Cingolani, il fisico che dirige l’Istituto italiano di tecnologia a Genova.
In attesa di vivace scambio di idee con il robottino, bisogna prendere atto che è lui il simbolo del cambio di passo che caratterizza questa stagione culturale. Perché le vere star della fiera torinese non sono più gli scrittori, romanzieri o saggisti, comunque intellettuali umanisti, ma gli scienziati, soprattutto fisici ed astrofisici, «quei visionari capaci di perlustrare luoghi sconosciuti, ai confini della conoscenza», dice Guido Tonelli, uno degli scopritori del bosone di Higgs. Sono loro oggi i nuovi maîtres à penser, adorati dalle folle in piazza e anche in libreria, dove Carlo Rovelli vende più di King parlando di meccanica quantistica e l’affascinante Christophe Galfard incanta i lettori sulle origini del Big Bang: è un pupillo di Stephen Hawking molto somigliante a Colin Firth, circostanza non sfavorevole. «Oggi il grande romanzo intellettuale non è scritto dagli umanisti ma dagli scienziati», dice Ernesto Ferrero, sapiente regista anche di questo Salone. «L’approccio letterario tradizionale mostra la corda: non si sono visti negli ultimi tempi scrittori che raccontassero qualcosa di nuovo». Così i lettori lo vanno a cercare altrove.
Il passaggio non è di poco conto in un paese che ha sofferto più di altri della divaricazione tra le due culture. Il problema fu sollevato quasi sessant’anni fa da un celebre e contestato saggio di Charles Percy Snow, che lamentava la crescente frattura tra le due anime dell’Occidente, nella reciproca diffidenza tra scienziati e umanisti. Da allora molto è cambiato, nel proliferare anche in Italia di ponti tra le due sponde. Ma resiste ancora una dissennata differenza sul piano della rispettabilità sociale tra chi sbaglia la data della Rivoluzione Francese e chi ignora la gravità quantistica. Come spiegarci dunque questo improvviso capovolgimento di ruoli? «In un mondo afflitto da un’informazione usa e getta, dove le notizie hanno vita molto breve, la scienza rappresenta un ancoraggio certo, a cui rivolgere le grandi domande sull’origine dell’universo», risponde Tonelli, autore di un bel racconto sulla sua avventura al Cern ( La nascita imperfetta delle cose, Rizzoli). «Siamo percepiti come persone serie, che dedicano vent’anni allo stesso tema e hanno cura artigianale del proprio lavoro». Il bisogno di rigore scientifico come reazione a un pressapochismo diffuso, anche a un presente sempre più confuso, spaventato, precario. «Riscatto conoscitivo », lo definisce Ferrero. «A un certo punto del nostro interminabile crepuscolo abbiamo sentito la necessità di alzare lo sguardo, di tornare a misurarci con le grandi domande sulla vita».
È la scienza stessa che nel suo vorticoso progresso finisce per toccare le corde più profonde dell’esistenza, spostando le sue frontiere sempre più avanti. «Quando ho cominciato a occuparmi di nanotecnologie», racconta Cingolani, «certo non mi ponevo il problema che le macchine avessero dei diritti. Ora devo pormelo. Se esiste un codice della strada per disciplinare il traffico di centinaia di milioni di automobili, domani sarà necessario avere un codice per disciplinare le attività dei numerosi robot che saranno più intelligenti delle automobili». Ecco perché la saldatura tra umanesimo e scienza non può essere rimandata: questione approfondita anche nel suo recente Umani e umanoidi. Vivere con i robot (con Giorgio Metta, il Mulino). «La vera rivoluzione», prosegue Cingolani, «sta nella interdisciplinarietà: il fisico lavora con il filosofo e con l’economista. La figura del futuro è il global scientist che non è un tuttologo ma ha una visione d’insieme che comprende le varie discipline».
Vietato dunque leggere il confronto tra umanisti e scienziati come una competizione tra avversari irriducibili. Non a caso il Salone renderà omaggio a due scrittori nutriti di cultura scientifica come Italo Calvino e Primo Levi. E a ricordarci quanto sia folle separare il ragionamento matematico dalle emozioni è Marco Malvaldi, giallista e chimico, che porterà a Torino la sua storia sentimentale della scienza da Omero a Borges ( L’infinito tra parentesi, Rizzoli). «L’atteggiamento di chi dice che la fisica e la poesia sono due cose diverse non è molto lontano da quello di chi userebbe due pentole diverse per bollire l’acqua dei fusilli e quella dei maccheroni», scrive Malvaldi con analogia culinaria. «In fondo Borges aveva capito prima dei neuroscienziati che l’oblio è una delle forme della memoria. E Paul Dirac, il padre della meccanica quantistica relativistica, può essere considerato il più grande poeta inglese di tutti i tempi».
Tutti d’accordo nel celebrare la ritrovata intesa. Ma qualche impaccio sopravvive, legato alla diversa velocità. «Oggi noi scienziati siamo caricati d’una responsabilità che dovremmo condividere con altri», dice il professor Tonelli. «Perché a noi si chiede anche di esorcizzare le paure che la tecnica infonde. Il sentimento verso le tecnologie è infatti duplice: da una parte le persone ne sono dipendenti, dall’altra nutrono sospetto e paura. E allora ci chiedono: dov’è il limite? Ma noi dovremmo poter rispondere insieme agli studiosi di filosofia e di etica». In sostanza, dice Tonelli, la tecnologia procede con un passo così veloce che le scienze umane faticano a starle dietro. «Sì, alcune discipline hanno finito per sparigliare, mentre altre restano ancorate a se stesse», concorda Cingolani. «Per un umanista è più difficile entrare nel regno dei numeri, mentre è più facile il contrario. Però non traccerei graduatorie tra il dinosauro e l’alieno. Siamo come un gruppo di ciclisti, in cui qualcuno ha staccato in avanti e altri faticano un po’: ma siamo lo stesso gruppo perché siamo parte di un processo culturale che sta evolvendo».
Perché una cosa abbia successo è necessario che ci sia qualcuno che sappia raccontarla. E la popolarità della scienza è legata anche a questa novità: la nascita del fisico scrittore, che non si limita all’architettura dell’universo ma mette in gioco se stesso. «I libri di divulgazione li ho sempre trovati molto noiosi», dice Tonelli. «Mi viene in mente Leon Lederman: molti tecnicismi e nessuna accensione emotiva. Per questo nel libro sulla scoperta del bosone di Higgs ho raccontato anche le mie emozioni: l’entusiasmo, le delusioni, un lutto profondo come la morte di mio padre. Anche per dimostrare che non siamo macchine, ma creature sentimentali ». I romanzieri di professione sono avvertiti: non sarà una partita facile.
di Simonetta Fiori
Fonte: La Repubblica
Suma Qamaña
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