La battaglia per il referendum costituzionale parte molto in salita per il premier Matteo Renzi. Analizzando gli esiti del voto di lista nei diciotto principali capoluoghi emerge che circa due italiani su tre, attualmente, voterebbero no alle riforme istituzionali disegnate dal ministro Maria Elena Boschi.
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In particolare, il Giornale ha esaminato un campione di oltre 3 milioni di preferenze espresse su un totale di 3,5 milioni (affluenza del 59%). Lo scarto di circa 550mila voti è ascrivibile alla fiducia conquistata da formazioni e liste civiche di estrema destra, estrema sinistra o altrimenti non catalogabili. Ebbene, scomponendo i risultati in base alle formazioni politiche e alla loro collocazione rispetto al referendum, emerge che il Pd e i suoi alleati centristi della maggioranza di governo hanno ottenuto 1,125 milioni, il 37,5% del totale. Il composito fronte del «No» che spazia da M5S a Forza Italia e dalla Lega a Sinistra italiana ha, invece, ottenuto 1,877 milioni di voti (62,5%).
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La prima conseguenza è che i democratici sono sostanzialmente soli nell’affrontare questa sfida. Le formazioni centriste (Ncd, Udc, Scelta civica, Ala) si fermano poco sotto i 100mila voti, mentre Partito socialista, Centro democratico e Fare! del sindaco veronese Tosi non hanno radicamento nazionale. La derivata seconda di questo stato di cose è la necessità di puntare sull’ampio bacino dell’astensione, attestatasi al 41% in questi grandi centri, per cercare di riequilibrare la partita. E non è un caso che la comunicazione renziana punti a battere l’Italia metro per metro per conquistare indecisi e indifferenti. Le 18 grandi città con i loro 6 milioni di elettori rappresentano poco meno della metà dei 13 milioni di italiani chiamati domenica alle urne. Piccole città e paesini potrebbero, pertanto, fare la differenza.
Sbaglierebbe il centrodestra a pensare che sia sufficiente sommari i 900mila voti conquistati ai 670mila dei grillini e ai 310mila della sinistra radicale per mandare a casa il presidente del Consiglio. Il partito di Renzi e i suoi alleati sulle riforme non sono forti solo dove sono storicamente radicati come a Bologna (55,6% al fronte del «Sì») e a Salerno (plebiscito per De Luca&Co. con l’82,8%). Anche in una tradizionale roccaforte della Lega come Varese i «revisionisti» sono in vantaggio con il 55%, mentre in grandi centri come Milano (47,4% di «Sì») e Torino (46,8%) la partita è aperta.
I renziani scontano, in pratica, le débâcle di Roma e di Napoli, città nelle quali la fazione pro-riforme è ridotta ai minimi termini, rispettivamente al 27,3 e al 23,9 per cento. Lo stesso vale per Cagliari (24%) e Trieste (non compresa nel campione perché non rilevata dal ministero dell’Interno ma con il «sì» poco al di sopra del 20%), capoluoghi nei quali le componenti autonomiste sono forti e hanno assunto una posizione critica nei confronti di una revisione costituzionale che aumenta i poteri del governo centrale.
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Non ha torto il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta a sostenere che gli esiti del voto siano «un avviso di sfratto» per il premier che ha legato le sue sorti al referendum. Allo stesso tempo, occorre tener presente, però, che il voto di opinione alla prova dei fatti è spesso minoritario rispetto a quello espresso in base a convenienze personali. Soprattutto se l’interlocutore è un governo che ha emanato numerosi provvedimenti volti a «comperare» il consenso popolare.
di Gian Maria De Francesco
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Il Giornale, che ringraziamo.
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