L’esito degli stress test potrebbe rivelarsi un disastro per Mps e il Banco Popolare, con l’indicatore di solidità patrimoniale Cet1 della banca senese che, nello scenario avverso messo a punto dall’Eba, verrebbe praticamente azzerato e quello dell’istituto veronese che scenderebbe addirittura sottozero.
La previsione ‘shock’ è contenuta in un report di Morgan Stanley dedicato alle banche italiane, in cui l’istituto Usa suggerisce al governo di utilizzare il corridoio offerto dagli stress test per ricapitalizzare i nostri istituti ed evitare così il coinvolgimento degli obbligazionisti non subordinati, come prevedono le regole del bail-in, ma non il sacrificio di azionisti e detentori di bond subordinati. Lo studio ha provocato una durissima reazione del Banco, che si è riservato “ogni opportuna azione nelle dovute sedi a tutela della propria immagine e dei propri azionisti”, anche alla luce del tonfo del titolo in Borsa (-6,15%, dopo aver perso fino al 12% in corso di seduta ed essere stato sospeso).
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“L’approccio” di Morgan Stanley “è al punto lacunoso e i risultati cui conduce così gravemente infondati – ha affermato il Banco – da imporre di sottolineare che si tratta di stime basate, con sconcertante superficialità, su ricostruzioni e metodologie neppure specificate, con risultati che non trovano alcun riscontro nei dati in possesso del Banco Popolare applicati in modo coerente con le regole proprie degli Stress Test”. L’istituto guidato da Pier Francesco Saviotti lamenta anche che l’analisi non incorpora “gli impatti positivi” dell’aumento da 1 miliardo chiuso con successo a giugno. Il report – su cui ha acceso un faro anche la Consob – prevede un crollo di 14 punti del Cet1 del Banco Popolare (da 12,4% a -1,6%) e di 11,7% di quello di Mps (da 12% a 0,3%), con perdite cumulate in tre anni, rispettivamente, di 7,6 e 10,9 miliardi.
L’istituto senese dovrebbe varare un aumento da 2 a 6 miliardi mentre viene esclusa una nuova ricapitalizzazione per il Banco, grazie alla recente iniezione da 1 miliardo e al matrimonio con la più solida Bpm. Ipotizzando il mantenimento di un Cet1 del 5,5% anche in caso di grave stress si salverebbero invece Ubi Banca (-6 punti, al 5,6%) e Unicredit (-3,9 punti, a 6,8%). Supererebbe invece la prova senza patemi Intesa, conservando un Cet1 del 10% (-3,1 punti). Occorre peraltro ricordare che, a differenza dello stress test del 2014 – che prevedeva il mantenimento di un Cet1 del 5,5% – l’esame in corso non prevede soglie minime e dunque distinzioni tra promossi e bocciati.
Ma Morgan Stanley suona anche un campanello d’allarme per il governo: anche una ricapitalizzazione in seguito agli stress test “potrebbe essere politicamente inaccettabile”, coinvolgendo solo per quanto riguarda Mps, 5 miliardi di debito subordinato “la maggior parte del quale nelle mani di investitori retail”, con un “un impatto” sull’esito del referendum costituzionale di ottobre. “Siamo preoccupati che una soluzione che utilizza fondi pubblici possa trascinarsi a dopo il referendum o persino essere tolta dal tavolo”, concludono gli analisti.
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Uno Tsunami che da inizio anno ha provocato un crollo del 40%
Prima del crac Lehman Brothers, la tedesca Deutsche Bank valeva in Borsa 130 miliardi di euro, ora supera di poco i 15 miliardi, quasi la metà di Intesa Sanpaolo ma soprattutto 10 volte meno di Bank of America e un abisso rispetto ai 230 miliardi di JP Morgan Chase. La crisi borsistica che investe le banche da inizio anno non riguarda solo gli istituti della penisola, ma tocca tutta l’Europa. Da gennaio a oggi l’indice di borsa delle banche europee accusa un crollo intorno al 40%. Dal terremoto generale si salva soltanto Hsbc con una performance negativa di appena l’8%.
Scorrere le quotazioni dei principali istituti di credito del Vecchio Continente sembra un bollettino di guerra. Mps da inizio anno ha perso il 75,8% con una accelerazione nelle ultime due sedute di Borsa. Tra le peggiori performance anche UniCredit che mostra una contrazione di circa il 60%, incalzato da banco Popular che ha lasciato sul terreno il 58%. Oltre il 50% la flessione del Credit Suisse, Deutsche Bank accusa un -43%, Royal Bank of Scotland ha mandato in fumo il 46%, più o meno come Intesa Sanpaolo mentre Commerzbank ha perso il 40%, UBS il 35%. Poco meglio gli istituti francesi con Societe Generale in calo del 34%, Credit Agricole -30% e Bnp Paribas -22%, in linea con le spagnole Santander e Bbva.
Gli investitori abbandonano le banche e si spostano verso asset giudicati più sicuri, in primis i titoli di Stato dell’area euro, che beneficiano dell’ombrello da parte della Bce con il quantitative easing.
L’indicazione che arriva dai mercati è molto chiara: serve un intervento degli Stati per mettere al riparo il sistema bancario. Un copione non originale. Tra il 2008 e il 2009 per scongiurare il crac finanziario globale molti Stati sono intervenuti massicciamente a sostegno delle banche. La Gran Bretagna si è ritrovata con le principali banche nazionalizzate e ancora oggi il Tesoro è l’azionista di riferimento in Lloyds Banking Group e Rbs. E il risultato al referendum sulla Brexit allonta di almeno un paio di anni il collocamento delle quote in mano al Tesoro britannico. Tra il 2008 e il 2014 l’Europa ha autorizzato aiuti di Stato a favore del sistema bancario per un valore di quasi 5mila miliardi di euro, di cui 800 miliardi per le ricapitalizzazioni e di questi 453 miliardi sono stati utilizzati tra Gran Bretagna, Germania, Francia, Grecia e Spagna.
In Italia appena 8 miliardi di euro a fronte di sette anni di recessione. I primi a mettere soldi del contribuente sono stati gli americani con il Tarp grazie al quale il governo di Washington ha acquistato azioni privilegiate (senza diritto di voto in assemblea) delle principali nove banche americane impegnando 205 miliardi di dollari e alla fine del Capital Purchase Program il Tesoro ha guadagnato oltre 7 miliardi di dollari.
In Europa va ingrossando le fila il partito che chiede un intervento analogo al Tarp, mentre la sospensione delle norme sul bail-in incontra meno consenso. Il vice chairman del colosso BlackRock, Philippe Hildebrand, sul Financial Times ha scritto che “il premier Matteo Renzi ha ragione: in Europa c’è un problema con le banche”, proponendo un intervento pubblico temporaneo per gli aumenti di capitale. Un’opzione che consentirebbe di non imputare a debito pubblico l’onere per le casse dello Stato. Contrario invece a sospendere le norme sul bail-in, in quanto minerebbero la credibilità del quadro regolatorio.
Per Lorenzo Bini Smaghi, chairman di Societe Generale ed ex membro del board della Bce, la sospensione del bail-in è da considerare. In una intervista a Bloomberg Tv ha sottolineato che l’intero mercato bancario è sotto pressione e si rischia un effetto contagio. Come ha scritto l’Economist a inizio anno forse l’Europa introducendo le norme sul bail-in (spostare dai contribuenti agli azionisti e investitori l’onere dei salvataggi bancari) ha tentato di “de-politicizzare il sistema bancario” dell’area euro. Forse i mercati stanno diventando sempre più restii a impiegare liquidità senza reti di protezione pubbliche.