Il protagonista de ‘L’indice della paura’ di Robert Harris (Mondadori) è un fisico esperto in algoritmi e un formidabile gestore di hedge fund. Prevede tutto, fa grandi affari, sfruttando il panico. Nel suo mondo, tutto digitale, la carta è vietata. Scoprirà la realtà e la durezza dei sentimenti – anche sfogliando un libro – che nessuna formula può descrivere.
Roberto Cingolani è uno scienziato alla testa dell’IIT, l’Istituto italiano di tecnologia. Non ha la verve narrativa dell’autore di Pompei, ma racconta assai bene lo straordinario sviluppo della tecnologia. E parla di un sorpasso storico. Oggi si producono più transistor che chicchi di riso. Artificiale batte naturale.
«Le informazioni – dice Cingolani – viaggiano più veloci della capacità del nostro cervello di processarle. Il tempo di transito nella Rete è spesso inferiore a quello di trasduzione degli impulsi nel sistema nervoso umano». Fatichiamo, per esempio, a comprendere il significato di crescita esponenziale.
Fenomeno spiegato bene da Stefano Quintarelli nel suo ‘Costruire il domani’ (Edizioni Il Sole 24 Ore): «Nel 2016 abbiamo dispositivi con il doppio della potenza di quelli del 2014, il quadruplo di quelli del 2012, otto volte il 2010». E così via.
Il nostro modo di ragionare, di organizzare la società, attraverso la politica e il diritto, è ancora lineare, con scarsa capacità di astrazione. La coscienza di questo divario sarebbe già una conquista, un balzo in avanti che può condizionare, in meglio, scelte e investimenti.
Chi si avventura, come Raymond Kurzweil in ‘La singolarità è vicina’ (Apogeo), forse con eccessivo entusiasmo, nel disegnare il futuro delle tecnologie esponenziali immagina un mondo di smisurate intelligenze artificiali. Noi, nel nostro piccolo, ci fermiamo qui, e ci limitiamo a dire che sarebbe opportuno un dibattito più aperto e sincero fra scienza e società. Con una comunicazione più chiara, didascalica.
Il primo, il mondo scientifico, attenuerebbe l’impulso di potenza che si accompagna alla velocità delle innovazioni. L’ebbrezza del non avere ostacoli, nemmeno etici. Il secondo – l’opinione pubblica, la politica e le istituzioni – curerebbe la sindrome dell’esclusione che genera paure e oscurantismi. La tecnologia non è nemica (del lavoro, per esempio), ma va conosciuta e vissuta meglio.
C’è un ritardo culturale che riguarda molti Paesi invecchiati, anche se all’avanguardia nella ricerca. Ovvero la difficoltà di dare il giusto valore alla dimensione immateriale. Se il nostro modo di ragionare – soprattutto di chi decide le politiche pubbliche – è ancora troppo lineare, è comprensibile che si continui ad apprezzare di più o soltanto ciò che esiste materialmente.
Eppure in pochi anni è accaduto che la più grande società di noleggio al mondo (Uber) non possegga auto e il più grande operatore alberghiero (Airbnb) non abbia nemmeno una camera. I giovani millennials lo sanno fin troppo bene. Gli immigrati digitali (tra cui chi scrive) arrancano.
La barriera invisibile tra i due mondi impedisce ai primi di apprezzare la bellezza di un dialogo reale, più autentico di una chat, o di sfogliare le pagine di un libro prezioso, un’esperienza unica (come avviene nel romanzo di Harris). E ai secondi preclude orizzonti sconosciuti di libertà personali nel comprare, viaggiare, investire. Un invisibile muro separa le generazioni. Con effetti sulla tenuta sociale.
Le proprietà della dimensione immateriale sfuggono ai più. Produrre, riprodurre, archiviare o trasferire non costa. Ma non finisce qui. Ed è già una rivoluzione. Nel mondo immateriale non vi sono turni di lavoro, si è sempre connessi (qualcuno potrebbe giustamente dire: purtroppo), i beni non sono escludibili – chiunque stia in Rete può accedervi – non deperiscono.
Ma gli stessi prodotti fisici hanno una componente immateriale crescente. Li ordiniamo su Amazon. Prenotiamo un volo e un ristorante grazie ad applicazioni che selezionano le migliori offerte. Le abitudini cambiano profondamente. L’adattamento lento e passivo crea condizioni di sudditanza e limita la reale libertà di scelta.
Una dimostrazione del vuoto culturale sta anche nella difficoltà di usare i termini corretti. Quintarelli, giustamente, condanna l’uso del termine «virtuale» per le attività in Rete. Virtuale è qualcosa che esiste solo in potenza. Le quotazioni di Borsa di alcuni operatori virtuali sono maledettamente concrete, visti i guadagni che si trasformano in fantastiche proprietà fisiche dei loro creatori.
La difficoltà di valutare i guadagni di produttività e di misurare correttamente le potenzialità economiche di un Paese, è probabilmente legata anche a questo deficit percettivo delle tecnologie. Che sarebbe errato definire nuove perché – come si è visto – hanno cambiato già in profondità la nostra vita. E con la crescita esponenziale ancora prima che ci si accorga.
«Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima che accada». Un aforisma di Rainer Maria Rilke, un secolo fa. Un algoritmo non potrebbe dirlo meglio.