Laa notizia è clamorosa: sulla base di una direttiva del presidente Obama la Cia avrebbe iniziato a programmare un attacco cibernetico alla Russia come rappresaglia per le intrusioni nelle comunicazioni interne del Partito democratico, diffuse successivamente da Wikileaks.
È ormai da tempo che si parla dell’impiego della cibernetica come strumento di un confronto militare, e non è un mistero che gli stati maggiori dei principali Paesi includano la cibernetica nelle loro pianificazioni strategiche. Ufficialmente (non per niente quelli che un tempo si chiamavano “ministeri della guerra” sono stati ribattezzati “ministeri della difesa”) per preparare adeguate difese contro un attacco nemico che potrebbe paralizzare le comunicazioni non solo militari ma anche i servizi pubblici e in particolare l’erogazione di energia, con effetti paralizzanti sull’intero Paese. Ma è ovvio che assieme alla difesa si prepara anche l’attacco.
Oltre agli scenari della “guerra cibernetica” abbiamo anche l’uso della cibernetica nel campo dell’intelligence, dove strumenti iper-sofisticati permettono di penetrare i sistemi dell’avversario per ricavarne informazioni non solo militari, ma anche economiche e politiche. Uno dei dipartimenti della Cia si chiama “Center for Cyber Intelligence”, e si fa molta fatica a credere che i livelli operativi raggiunti in questo campo dagli americani siano secondi a quelli di qualsiasi altro Paese, a partire dalla Russia.
La polemica di questi ultimi giorni, tuttavia, non si riferisce né alla guerra cibernetica né alle operazioni d’intelligence. Che militari e spie operino al massimo livello tecnologico non è certo né un mistero né viene comunemente ritenuto scandaloso. Oggi si parla di qualcosa di molto diverso, della interferenza da parte della Russia nello stesso processo politico americano in un momento particolarmente delicato, quello delle elezioni presidenziali. Gli americani, e personalmente Obama, sono convinti che chi ha intercettato lo scambio di mail fra Hillary Clinton e i responsabili del Partito democratico non siano soggetti privati, ma lo Stato russo. I russi (ovviamente) negano, ma il tema è diventato politicamente surriscaldato soprattutto in relazione alla bizzarra affinità fra Putin e Trump. Trump non ama certo la Russia, ma sembra essere autenticamente attratto dallo stile autoritario e macho di Vladimir Putin in contrasto con quella che lui palesemente considera la “mancanza di attributi” che caratterizza Obama e in genere i Democratici, che adesso addirittura pretenderebbero di fare eleggere una donna (una donna!) alla presidenza degli Stati Uniti.
E Putin? Come è noto, il presidente russo appoggia, e in parte finanzia, populisti di destra come Marine Le Pen, sia nell’intento di evitare un totale isolamento internazionale sia perché, essendo lui stesso sul piano ideologico un populista reazionario, questo non gli risulta difficile. Se, come sembra, sull’hacking contro Hillary Clinton ci sono davvero le sue impronte digitali, questo si può spiegare in modo analogo, ma anche sulla base di qualcosa che si relaziona in modo specifico ai rapporti fra Russia e America. Non avendo mai accettato di non essere più considerato un avversario/ interlocutore paritario con gli Stati Uniti, Putin cerca in ogni modo (dalla politica medio-orientale al flirt con personaggi della destra europea e americana) di dimostrare che la Russia può fare tutto quello che fa l’America: non solo intervenire militarmente ovunque ma anche cercare di influire sulle situazioni interne degli altri Paesi.
L’hacking di Stato minacciato da Obama contro la Russia non riveste una dimensione bellica, e nemmeno si tratta di ordinaria intelligence. L’hacking della Cia sarebbe infatti diretto, si apprende ufficiosamente, a raccogliere — in chiave di ritorsione — elementi capaci di mettere in imbarazzo il governo russo, e personalmente Putin. Si situa quindi sul terreno della politica. Politica sporca, politica provocatoria, politica pericolosa: sarebbe opportuno che, visto che nessuno può considerarsi al riparo da questo tipo di intrusioni, si pensasse seriamente a passare dalla rappresaglia a misure di “disarmo bilaterale” anche su questo terreno. L’hacking non può essere “disinventato”, ma si dovrebbero accettare, in chiave di reciprocità, alcuni limiti.
di Roberto Toscano
Fonte: La Repubblica 16.10.16
Il disarmo necessario
Gli Stati maggiori dei principali Paesi includono la cibernetica nelle loro pianificazioni strategiche