È il nuovo centauro della scena politica internazionale, per metà espressione del sistema democratico, per metà dittatore. Il democratore è la fase evolutiva del populismo. Raccoglie legittimo consenso da un elettorato eterogeneo per ceto e censo che ha una sola caratteristica in comune: la ribellione all’idea che tutti – gay, immigrati, narcotrafficanti, movideros, banchieri, top manager, politicanti, oligarchi assortiti – siano liberi di fare a piacimento.
Loro sono quelli che hanno votato per il newyorkese Donald Trump e per l’ungherese Viktor Orbán, che voteranno in Francia per Marine Le Pen, che hanno appoggiato la Brexit e l’Ukip di Nigel Farage, che hanno tifato per il turco Tayyip Erdogan contro i golpisti, che premiano nei sondaggi di popolarità il russo Vladimir Putin, l’israeliano Benjamin Netanyahu, l’indiano Narendra Modi, il filippino Rodrigo Duterte.
Uomini che costruiscono muri e mantengono consensi in base al principio “right or wrong, my country”: giusto o sbagliato, è il mio paese.
I sostenitori di questi leader per lo più non vivono a New York o a Mosca, a Istanbul o a Mumbai, a Tel Aviv o a Londra, le capitali corrotte dal libertinismo globalizzato. Sono periferici e soprattutto stanno ai margini di una divisione destra-sinistra che ai loro occhi ha perso ogni significato.
Sono gli epurati che rivogliono la loro quota di sovranità smarrita con le maniere forti. E solo un uomo forte può aiutarli.
Identikit dell’uomo forte
Trovare un nemico da aggredire non è mai stato un problema per il democratore. Può essere il messicano stupratore o lo sleale commerciante cinese dei discorsi di Trump. Nel caso dell’ex campione di judo ed ex Kgb Putin è stata la guerra con l’Ucraina per l’annessione della Crimea. Altri puntano sulla minaccia interna dei migranti da tenere al di là di un muro, un’operazione che vive un grande revival a 17 anni dalla distruzione dello sbarramento fra Berlino Ovest e Berlino Est.
Altri bersagli garantiti per creare consenso sono la lotta al narcotraffico e alla corruzione o persino la guerra a una valuta – l’euro – o a una banconota di piccolo taglio, come è appena accaduto in India.
Il contrasto alla criminalità economica è un caposaldo del programma dell’indiano Narendra Modi. Per mesi il leader del secondo paese più popolato della terra, aspro avversario della diplomazia italiana sulla vicenda dei marò, ha picconato l’influenza corruttrice degli stranieri nel Paese, con una chiara allusione alle origini piemontesi di Sonia Gandhi.
Nel giorno in cui il mondo aspettava l’esito del duello Trump-Clinton, Modi ha lanciato una guerra-lampo contro le banconote da 500 e 1000 rupie (equivalenti a circa 7 e 14 euro). Dall’oggi al domani, l’86 per cento del liquido in circolazione (pari a 220 miliardi di dollari) è finito fuori corso per colpire i principali accumulatori di cash. Sono i re dell’economia nera, stimata in 800 miliardi di dollari, un terzo del prodotto legittimo del subcontinente (2400 miliardi di dollari).
Il provvedimento è stato un terremoto per un sistema dove i pagamenti in contanti sono spesso gli unici possibili, soprattutto nelle zone rurali, e ha colpito gli strati più bassi della piramide sociale. Gli stessi che i democratori dicono di volere difendere.
La guerra alla droga è alla base dell’azione di Rodrigo Duterte. Dopo sei mesi di presidenza, il suo consenso è all’85 per cento. Se ne vedono tracce anche in Europa, dove tra i lavoratori filippini espatriati vanno di moda i giubbotti con la bandiera nazionale e il nome di Duterte scritto in grande.
L’ex sindaco di Davao, città di 1,5 milioni di abitanti capitale dello Stato di Mindanao, è un collezionista di armi e un tiratore scelto. Sostenuto nella sua corsa elettorale dal più grande pugile al mondo degli ultimi dieci anni, l’eroe locale Manny “Packman” Pacquiao, Duterte sta mantenendo con scrupolo la promessa elettorale di distruggere fisicamente i narcotrafficanti. Le organizzazioni internazionali sui diritti umani calcolano che nei primi cento giorni dall’entrata in carica di “Rody”, oltre 3 mila persone siano state assassinate dalle forze dell’ordine e dagli squadroni della morte legati al governo. I sicari lavorano a pagamento ma anche per slancio idealistico verso un presidente circondato da leggende come quella per cui avrebbe buttato un delinquente in pasto a un coccodrillo vivo.
Il 20 ottobre, quando tutti i sondaggi davano Clinton in testa alla corsa presidenziale, Duterte aveva annunciato l’intenzione di «separarsi dagli Stati Uniti» per avvicinarsi alla Cina di Xi Jinping. Da ammiratore ricambiato di Donald Trump, è molto probabile che ci ripensi.
I 200 generali sostenitori di Trump ne saranno lieti: Duterte è una pedina di rilievo globale nel contrasto ai gruppi islamisti che proprio nello Stato di Mindanao hanno la loro roccaforte con i seguaci di Abu Sayyaf.
Piccoli democratori crescono
Nei ranghi degli aspiranti democratori l’elezione di Trump ha suscitato entusiasmi. Non solo Farage, i Le Pen, sia Marine sia il ripudiato padre Jean-Marie, Matteo Salvini e Beppe Grillo. All’elenco molto composito di chi ritiene The Donald la verità e la via si è aggiunto l’israeliano Naftali Bennett, leader di HaBayit HaYehudi (La casa ebraica), la formazione più a destra nel governo di Netanyahu.
Figlio di emigrati dagli Usa ed ex ufficiale delle forze speciali, Bennett ha avuto successo come imprenditore del software a New York ed è ministro dell’istruzione. Nemico del doppio Stato, ora Bennett sta mettendo in difficoltà il suo stesso premier con i suoi disegni di legge a favore dei coloni. Secondo lui, le elezioni Usa «sono un’occasione unica per ripensare tutto» nell’assetto della regione.
La logica del male minore
Sul fronte opposto al democratore, il voto col naso turato sta diventando una tradizione dei progressisti, come il regista-profeta Michael Moore che ha previsto a luglio la vittoria di Trump. “Elettore depresso”, si è definito Moore che, pur essendo un sostenitore di Bernie Sanders, l’8 novembre ha votato per Hillary.
L’Europa occidentale è piena di elettori depressi. In Francia i socialisti delusi da François Hollande temono che alle presidenziali del maggio 2017 ci sia un ballottaggio fra un candidato di destra e uno ancora più di destra, Marine Le Pen. Allora tanto vale scegliere da subito il male minore e sostenere la candidatura del più moderato.
E l’Italia? Si trova in una posizione curiosa. Storicamente è il paese che ha inventato il democratore. Senza arrivare a Giulio Cesare, sostenuto dalla plebe e avversato dagli aristocratici, basta citare Benito Mussolini, che poteva trasformare l’aula parlamentare in “un bivacco di manipoli” ma si è fatto eleggere presidente del Consiglio nel novembre 1922 e poi confermare con il voto popolare dell’aprile 1924, prima di sbaraccare definitivamente le istituzioni democratiche.
In età contemporanea, Silvio Berlusconi è un modello di riferimento per il 45° inquilino della Casa Bianca: un venditore straordinario con una percezione tutta sua del codice penale e una falsa radice popolare alimentata dall’uso sistematico del linguaggio più vicino al popolo, quello politicamente scorretto a base di “culone inchiavabili” (Angela Merkel) e uomini “belli e abbronzati” (Barack Obama).
È il linguaggio che il supertrumpiano Clint Eastwood insegna al suo allievo di origine coreana in una scena da antologia del film Gran Torino (2008) dove gli insulti razziali diventano un modo virile e innocuo di scherzare fra amici senza piegarsi alle imposizioni del politicamente corretto.
A furia di scherzare, otto anni dopo Gran Torino il suprematista bianco Steve Bannon è diventato “chief strategist” della Casa Bianca. L’irresistibile ascesa dei democratori continua.
robyuankenobi
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