Gli investitori tornano a vendere con decisione BTp, spingendo il tasso del decennale al 2,12%, ma vendono in dosi ancora più massicce i Bund, facendo salire il suo rendimento allo 0,28% e riducendo quindi lo spread Italia-Germania a 184 punti base. Quello che agli occhi di molti sembrerebbe un paradosso serve invece a spiegare cosa ha veramente mosso i mercati nella giornata di ieri: non il rischio politico – che pure aveva valide ragioni per ripresentarsi agli occhi dei trader per le crescenti incognite sul voto francese dopo la decisione di François Fillon di continuare la corsa all’Eliseo nonostante gli sviluppi giudiziari che lo riguardano – ma le dinamiche legate più strettamente alle variabili macroeconomiche, in Europa e non.
Se il rendimento del Bund sale più di quello dei titoli francesi o dei paesi «periferici» non ci si può infatti certo appellare alla classica «fuga dal rischio» vista nelle settimane più recenti, ma è perché dall’economia europea arrivano segnali convincenti (che contemporaneamente contribuiscono a spingere le Borse) e per altri versi anche preoccupanti (che frenano i bond sovrani). Fra i primi occorre ricordare per esempio, oltre alla conferma sul dato del Pil italiano del 2016 (+0,9%, crescita più elevata dal 2010), le indicazioni arrivate dagli indicatori anticipatori sull’attività manifatturiera (Pmi) che a febbraio si sono mantenuti ai massimi dal 2011.
«Prese nel complesso, queste cifre suggeriscono che, dopo una crescita sostenuta negli ultimi mesi del 2016, l’attività industriale dovrebbe mantenersi solida anche nel primo trimestre del 2017», ricordava Barclays Capital, che prevede per l’Eurozona un incremento del Pil dello 0,4% rispetto ai tre mesi precedenti, lo stesso ritmo del trimestre precedente. Una maggiore spinta economica giustificherebbe in sé una rotazione dei portafogli degli investitori dall’obbligazionario all’azionario, ma per spiegare la pressione sui bond occorre guardare soprattutto alla crescita dell’inflazione, che in Germania ha superato il limite fatidico del 2% per la prima volta negli ultimi quattro anni e mezzo.
Quel 2,2% registrato dai prezzi al consumo tedeschi a febbraio (un decimo in più delle attese e tre rispetto al mese precedente) è tale infatti da mettere sotto pressione la Bce, anche alla luce del dato complessivo sull’Eurozona che sarà pubblicato oggi e che dovrebbe sfiorare di un decimo il target dell’Eurotower. Certo, gli analisti continuano a far notare come l’andamento dei prezzi sia influenzato soprattutto dal rincaro dei generi petroliferi e che la dinamica sottostante dell’inflazione resti ben più modesta e quindi tale da permettere a Mario Draghi di difendere fra una settimana esatta le proprie scelte di fronte al board e mantenere lo stimolo monetario.
Non c’è dubbio però che il pressing a cui sarà sottoposto l’ex governatore della Banca d’Italia sarà rilevante, come dimostrano anche le frasi ambivalenti pronunciate ieri a Lubiana da Jens Weidmann. Il presidente della BundesBank ha da un lato definito ancora «adeguata» l’attuale politica accomodante della Bce, dall’altro ha però sottolineato come in seno al Consiglio non ci sia unanimità né sul «giusto grado» di espansione monetaria, né sul momento in cui i dati saranno sufficienti a giustificare un suo cambiamento: parole che spiegano in gran parte il movimento al rialzo dei tassi tedeschi (ed europei un generale) sulla scadenza decennale e ancor più il balzo sulla parte a breve della curva (6 centesimi in più sullo Schatz a due anni a -0,84%) che è al tempo stesso la più sopravvalutata e la più sensibile alle mosse Bce.
Il quadro non sarebbe completo senza uno sguardo oltre l’Oceano, dove si è assistito a una simile impennata dei rendimenti dei Treasury, saliti ai massimi dal 2009 sulla scadenza 2 anni (1,30%) e tornati al 2,46% sul decennale. In questo caso, dove non sono arrivate le prime (vaghe) indicazioni di Donald Trump di fronte al Congresso hanno fatto invece breccia le esternazioni dei membri Fed William Dudley e John Williams, che sembrano accrescere le possibilità di un imminente nuovo rialzo dei tassi Usa. «Stando ai dati di Bloomberg le probabilità di un aumento dei tassi il prossimo 15 marzo sono salite notevolmente, superando l’80%», sottolinea Keith Wade, capoeconomista di Schroders, che dà appuntamento per domani a Chicago, quando il presidente Janet Yellen avrà l’ultima occasione per parlare in pubblico prima del meeting. Nel frattempo i rendimenti dei titoli Usa (e quelli Bund, a loro correlati) avanzano.
Fonte: Il Sole 24 Ore