Dopo anni di eccessi in cui il sistema di libero mercato avallato dai “poteri forti” ha avuto mano libera, provocando devastazioni sociali, impoverimento, disuguaglianze e la delocalizzazione all’estero di centinaia di ottime medie aziende italiane, sono finalmente in arrivo nuovi poteri speciali per il governo in settori strategici e d’interesse nazionale, a salvaguardia delle imprese italiane.
Non saranno ritenuti più compatibili col perseguimento degli obiettivi dettati dalla normativa europea tutti quegli investimenti stranieri che, in campi di rilevanza strategica, saranno sorretti da strategie predatorie, dirette a usurpare tecnologie e know how industriale e commerciale.
O che siano finalizzati a delocalizzare l’attività imprenditoriale, indebolendo la competitività del paese, riducendo al contempo i livelli occupazionali.
Tutto questo troverà concretezza e finalità in un nuovo disegno di legge, al momento allo studio del ministero dello sviluppo economico, guidato da Carlo Calenda (nella foto).
Pubblichiamo il discorso integrale del ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda pronunciato in occasione dell’Assemblea di Confindustria di ieri, 24 maggio 2017.
Parlare di crescita e sviluppo dopo quanto accaduto a Manchester è davvero difficile.
Speravamo di non dover più vedere accadere sul nostro Continente barbarie degne del secolo scorso.
La storia, nella sua connotazione novecentesca, si pretendeva finita più di un quarto di secolo fa, dopo la caduta del muro di Berlino e il trionfo di un Occidente che sembrava destinato ad una pacifica egemonia, in un contesto internazionale consensuale, aperto, sicuro e multilaterale.
Il mondo non è diventato piatto, e mai come oggi i nostri valori sono sotto attacco dall’esterno, mentre appaiono più deboli e più fragili agli stessi cittadini cui hanno assicurato, nonostante tutto, un periodo di crescita, sviluppo e libertà senza precedenti.
L’Occidente appare oggi più frammentato. Il nazionalismo riaffiora e con esso il protezionismo. Il progetto di riequilibrio della globalizzazione attraverso la costruzione di una solida rete di accordi di libero scambio tra Paesi che condividono un’economia aperta e standard elevati è per ora accantonato. Il TTIP, il TPP e gli accordi che l’Unione Europea sta negoziando con gli stessi Paesi che sarebbero stati membri del TPP, avrebbero potuto dare vita ad un’alleanza capace di definire le regole della seconda fase della globalizzazione.
Le ragioni di quel progetto, che avrebbe preservato il ruolo del WTO, riportando però nelle nostre mani il timone della globalizzazione sono oggi più valide che mai.
Come sapete l’Italia le ha sostenute forse più di ogni altro Paese europeo. E su questo vale la pena riflettere.
Sento oggi molte preoccupazioni, condivisibili nel merito, su un possibile ritorno degli Stati Uniti al protezionismo, ma non posso dimenticare quanto diffusa, ideologica e pretestuosa sia stata l’opposizione al TTIP, in particolare in Europa durante l’amministrazione Obama.
Vale la pena ricordarlo, non per alimentare rimpianti o polemiche, ma per dimostrare quanto erano già profonde le fratture che percorrevano l’Occidente prima delle ultime elezioni presidenziali americane.
Queste fratture vanno ricomposte se vogliamo attraversare in sicurezza un crocevia della storia molto pericoloso, che può mettere a rischio molte delle conquiste conseguite insieme dalla fine della seconda guerra mondiale.
Soprattutto per questo il G7 presieduto dall’Italia nei prossimi giorni è di cruciale importanza.
Alla base della rottura del rapporto di fiducia tra classi dirigenti progressiste e cittadini, ci sono stati errori gravissimi. Prima di tutto l’aver presentato processi epocali quali innovazione tecnologica e globalizzazione come “cene di gala” a cui tutti sarebbero stati invitati.
Per questo è fondamentale che i sostenitori del libero mercato recuperino quell’approccio pragmatico e non ideologico che serve per affrontare, governare e spiegare fenomeni tanto complessi e contraddittori.
Ma la strada della chiusura è per definizione senza uscita, per tutti.
Il Governo italiano affronta da questa prospettiva – se volete di liberismo pragmatico – i principali dossier di politica commerciale.
Giocare sempre in attacco quando si può, e in difesa quando si deve. Penso all’accordo con il Canada da un lato e al riconoscimento del MES alla Cina dall’altro.
Voglio ricordare con orgoglio che siamo stati gli unici in Europa a dare il consenso alla Commissione Europea per concludere l’accordo con il Canada, dopo otto anni di negoziato, con una procedura esclusivamente europea che avrebbe previsto il passaggio al Consiglio e al Parlamento Europeo, evitando di concedere un diritto di veto a ciascun Parlamento nazionale.
Purtroppo l’approvazione con procedura mista è stata di recente sancita anche da una sentenza della Corte di Giustizia. Ciò imporrà un completo ripensamento della politica commerciale comune altrimenti destinata ad una rapida morte.
Siamo in prima linea nel sostenere gli accordi di libero scambio così come siamo i più intransigenti quando si tratta di difendere l’industria europea dai rischi di comportamenti scorretti. Dai dazi sull’acciaio prodotto in dumping, che stanno finalmente riportando investimenti, a partire dall’ILVA, in un settore che era dato per spacciato, alla ben più difficile questione del riconoscimento del Market Economy Status alla Cina, l’Italia si è non di rado trovata sola all’inizio del percorso per poi vedere alla fine accolte in larga parte le proprie ragioni.
No al protezionismo dunque, ma assertività nella difesa da comportamenti scorretti o predatori. Su questi pilastri si fonda la nostra azione per quanto riguarda il commercio ma anche la difesa e la promozione dell’interesse nazionale.
L’anno scorso in questa stessa occasione dissi “io non devo difendere l’italianità delle imprese ma le imprese italiane; e per me un’impresa è italiana quando opera, investe e da lavoro in Italia”. Confermo quanto detto parola per parola. Gli investimenti esteri, che in un paese maturo sono soprattutto brownfield – ovvero acquisizioni – sono fondamentali per far crescere l’Italia.
Altra cosa però è subire operazioni opache o predatorie che possono paralizzare la gestione di un’azienda o depauperare il patrimonio tecnologico del Paese. Per questa ragione ho proposto la c.d. “norma antiscorrerie”. Un provvedimento che aumenta gli obblighi di trasparenza circa la finalità dell’investimento per chi acquista partecipazioni rilevanti in società quotate.
Una norma presente in molti altri ordinamenti, a partire da quelli francese, inglese ed americano. Una norma non retroattiva, né tantomeno disegnata per singoli casi aziendali.
Per lo stesso principio mesi fa ho scritto alla Commissione Europea, insieme ai miei omologhi di Francia e Germania, sollecitando una disciplina comune per i casi in cui aziende ad alto contenuto tecnologico vengano acquisite da investitori di Paesi extra-UE, talvolta partecipati da uno Stato, con il rischio di una delocalizzazione di asset pregiati in termini di brevetti e innovazione. In attesa che la Commissione europea prenda un’iniziativa, già nei prossimi giorni invierò a Bruxelles una proposta italiana.
Lo voglio ripetere ancora una volta. Non si tratta di difendere l’italianità della proprietà o peggio mettere in discussione i principi di apertura che regolano la nostra economia, ma di tutelare l’Italia da comportamenti che stravolgono le finalità di quegli stessi principi. Solo abbandonando un approccio ideologico potremmo preservare il libero mercato.
Salvare il liberismo dai liberisti (ideologici) rappresenta una buona sintesi di questo pensiero.
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Per l’Europa gli ultimi dodici mesi hanno rappresentato una prova durissima. Dopo Brexit il rischio di una spirale distorsiva è sembrato per la prima volta davvero concreto.
Per fortuna l’esito delle elezioni olandesi e poi di quelle francesi ha segnato un punto di svolta. Il 2018 sarà l’anno in cui il progetto europeo potrà finalmente ripartire. Il nucleo dei paesi fondatori allargato, dovrà guidare questa riscossa che probabilmente partirà dalla messa in comune delle politiche relative alla dimensione esterna: difesa, sicurezza, commercio, migrazioni.
Per l’Italia è fondamentale rimanere parte attiva di questo processo. Rappresentiamo oggi la frontiera europea su un Mediterraneo più instabile. A sud le migrazioni rappresentano una sfida che ci accompagnerà per molti anni, mentre ad est il medio e vicino oriente sta attraversando la sua versione della guerra dei trent’anni.
Nessun Paese quanto l’Italia ha dunque bisogno di un’Europa forte e coesa. Il nostro compito è spiegarlo ai cittadini, e non sarebbe impossibile se smettessimo di accarezzare l’antieuropeismo invece di combatterlo a viso aperto.
Contrapporre continuamente un’immaginaria quanto retorica Europa ideale ad un’Unione regolarmente descritta come grigia e tecnocratica contribuisce ad allontanare i cittadini. L’Europa che c’è è quella che abbiamo costruito anche noi, e se vogliamo cambiarla lo dobbiamo fare con più proposte, meno proteste e maggiore presenza nei luoghi dove si decide.
Il tema di una governance più forte ed efficace nei Paesi e tra i Paesi Occidentali e in Europa è urgente. Ma lo è ancora di più in Italia.
Abbiamo parlato per un anno di riforme costituzionali mentre dopo il 4 dicembre l’argomento è sparito dal dibattito politico.
Chi si opponeva al referendum prospettava una rapida soluzione, con diverse modalità, per gli stessi problemi, da presentare all’indomani del voto. Ovviamente non si è vista l’ombra di una proposta.
Eppure quei problemi rimangono e andranno prima o poi risolti. Penso in particolare alla necessità di definire una supremazia dello Stato sui veti delle autorità locali quando in ballo c’è un interesse strategico nazionale. L’anno scorso usai l’esempio del TAP e degli ulivi. Ma quello che abbiamo visto accadere è andato oltre ogni previsione.
La sindrome Nimby cavalcata da quasi tutte le autorità locali e il massimo della confusione amministrativa, con il TAR del Lazio che ha sospeso per alcuni giorni l’espianto degli ulivi, quando l’espianto era di fatto terminato, pur ammettendo che le autorizzazioni rilasciate erano perfettamente valide.
Abbiamo visto muri millenari distrutti da chi pretendeva di essere paladino e custode della difesa del territorio e molotov lanciate contro i vivai dove gli ulivi erano custoditi per essere reimpiantati, da parte di chi protestava contro l’espianto di quegli stessi alberi in nome dell’ambiente. Ovviamente ci sono state anche proteste pacifiche, a mio avviso incomprensibili nel merito, ma del tutto legittime nello svolgimento e non di rado i violenti, in larga parte venuti da fuori, sono stati isolati proprio dai cittadini pugliesi.
Il Governo ha tenuto la barra dritta, sostenendo le ragioni di una scelta fondamentale per la nostra sicurezza energetica e per la transizione verso un’economia decarbonizzata.
Questa, come altre vicende, a partire dal surreale dibattito sui vaccini, a cui il Governo ha dato una risposta forte nell’ultimo consiglio dei Ministri, dimostrano come la paura della modernità, per molti aspetti comprensibile, si sia in parte trasformata in un generico e irrazionale rifiuto che alimenta il populismo, e che dal populismo è alimentato.
Rifiuto della modernità e fuga dalla realtà vanno di pari passo, e nel nostro Paese hanno tratto forza anche grazie a molti anni di spesa pubblica incontrollata. Si è diffusa l’idea che esistano molti diritti e pochi doveri e che lo Stato possa e debba rispondere di ogni cosa. Le stravaganti proposte sul reddito di cittadinanza, così come le persistenti richieste di nazionalizzare ogni azienda in crisi sono il frutto di questa anomalia molto italiana.
Gli interessi dei cittadini contribuenti rischiano cosi di essere messi regolarmente all’ultimo posto.
Non esistono scorciatoie o ricette per generare crescita e benessere diverse da quella di investire sulla competitività delle imprese e del paese, affinché le imprese a loro volta investano e assumano. E la ragione per la quale cresciamo meno degli altri è che per un lunghissimo periodo di tempo abbiamo ignorato questo semplice fatto.
Per questo gli anni della crisi sono stati per noi complessivamente peggiori rispetto a qualunque altro grande Paese europeo.
I dati sulla crescita mostrano che siamo usciti definitivamente dalla recessione ma non siamo ancora fuori da quell’area grigia dell’1% che non basta a diffondere il benessere e a sostenere una pronunciata quanto necessaria riduzione del debito. Dire ciò con trasparenza non sminuisce gli sforzi che sono stati fatti in questi anni.
Il giudizio spetta a voi ma credo di poter sostenere che tra taglio delle tasse sulle imprese – IRAP, IRES IMU sugli Imbullonati – incentivi agli investimenti – dal Piano Industria 4.0 a i bonus sull’efficienza energetica e sulle ristrutturazioni – al piano straordinario Made in Italy – alle riforme a partire dal “Jobs Act”; il Governo Renzi e quello Gentiloni sono stati i più vicini al mondo delle imprese da molto tempo a questa parte.
Aggiungo che liberare risorse per la crescita continuando a ridurre il deficit è più di quanto hanno fatto altri Paesi europei, che beninteso potevano permettersi, grazie a un debito più basso, margini di manovra superiori.
Dobbiamo insistere su questa strada. Occorre però, nell’approssimarsi dell’inizio del processo di riduzione degli stimoli della BCE, che hanno rappresentato per il nostro Paese una fondamentale cintura di protezione, concentrare tutte le risorse disponibili su investimenti, pubblici e privati, e produttività e non mostrare alcun cedimento sulle riforme.
Processo penale, diritto fallimentare, concorrenza sono riforme importanti che non vanno accantonate. L’anno scorso dissi che il DDL concorrenza non era il migliore del mondo ma che conteneva comunque provvedimenti importanti e che sarebbe stato poco serio non portarlo a casa. Non era la mia legge, avrei potuto facilmente lasciarla cadere, ho scelto invece di assumermene la responsabilità. Non vorrei però finire come l’ultimo dei Mohicani.
Approvarla in Senato è stata una fatica immane adesso occorre chiuderla alla Camera senza modifiche ed ulteriori ritardi. Ricordiamo che combattere le rendite attraverso la concorrenza dovrebbe rappresentare il DNA di una coalizione di governo a guida riformista.
Allo stesso modo dobbiamo procedere sulla strada delle privatizzazioni. Non è solo una questione di riduzione del debito. Mantenere il controllo pubblico aprendo il capitale al mercato si è dimostrata una buona soluzione per ENI, ENEL, LEONARDO, FINCANTIERI e altre aziende che rappresentano oggi campioni nazionali capaci di sposare regole di mercato e interesse nazionale. Al contrario quando la politica ha preteso di mantenere un controllo totale sulle aziende a livello nazionale, come a livello locale, i risultati mi sembrano decisamente meno lusinghieri. Ogni riferimento alla RAI è del tutto casuale.
Nei prossimi mesi le priorità per il mio dicastero rimarranno quelle definite nella relazione programmatica presentata alle Camere a settembre dello scorso anno e delineata già alla scorsa Assemblea.
Ho inviato ai Presidenti delle Commissioni uno stato di avanzamento puntuale di cui vi ho distribuito copia anche per evitarvi la noiosa descrizione di un anno di lavoro.
Sta a voi aziende il giudizio sulla qualità dell’operato.
Queste sono invece le iniziative su cui ci concentreremo nei prossimi mesi.
Parto dal Piano Industria 4.0, che non è il piano Calenda, ma il piano che insieme a quattro Ministeri, alla Presidenza del Consiglio, al Parlamento e a tutte le rappresentanze delle imprese e dei lavoratori, abbiamo elaborato, sembra – ripeto, sembra dai primi numeri – che stia funzionando sul fronte dello stimolo agli investimenti – iperammortamento, superammortamento e credito d’imposta alla ricerca – e degli strumenti di supporto finanziario – fondo di garanzia e Sabatini.
Lunedi abbiamo lanciato il newtork dei Digital Innovation Hub che su tutto il territorio dovranno far conoscere alle imprese questa rivoluzione e la sua evoluzione. Entro giugno lanceremo il bando sui Competence Center.
Parlare di rinnovo degli incentivi prima di vedere gli effetti di quelli in vigore sarebbe sbagliato. Sono d’accordo però che il piano deve diventare strutturale, vedremo insieme in quali forme.
Su due pilastri del piano siamo in ritardo: 1) la banda larga nelle aree grigie dove risiedono il 65% delle imprese; 2) Il pilastro dell’education: dal raddoppio degli studenti degli ITS, ai dottorati di ricerca. Per quanto riguarda il primo punto stiamo lavorando per avere l’approvazione da parte della Commissione Europea entro settembre; mentre per il pilastro education cercheremo con il Ministro Fedeli e il Ministro Padoan di trovare le risorse nella prossima legge di bilancio e nei fondi Miur.
Il capitolo più importante, che va ancora scritto, è quello sul lavoro. Molto si parla degli effetti, potenzialmente pericolosi, dell’innovazione tecnologica. Si è arrivati a proporre una tassa sui robot. Mi sento di rispondere, anche vista la provenienza della proposta, che se alcune multinazionali dell’IT, e gli over the top, accettassero un decoroso livello di tassazione non avremmo bisogno di ricorrere a simili stravaganze per finanziare un welfare 4.0.
Con il Ministro Poletti stiamo lavorando ad un Piano Lavoro e Welfare 4.0 da presentare alla prossima Cabina di Regia e il contributo dei sindacati sarà essenziale in questo ambito. Quello che è certo è che il recepimento di strumenti di welfare aziendale e della formazione continua in alcuni contratti di categoria va sicuramente nella direzione giusta e deve essere allargato.
Ma mentre ci prepariamo per affrontare i nuovi paradigmi del lavoro non possiamo non accelerare sull’implementazione di quelli che avrebbero già aiutato il Paese a migliorare la produttività.
Concordo con Enzo sulle finalità di un “patto per la Fabbrica” che avvicini la contrattazione all’impresa. E siamo pronti a fare la nostra parte valutando un’ulteriore detassazione sui premi e sul salario di produttività.
Questa è la strada per avere retribuzioni più alte e aumentare la competitività. Ancora una volta non esistono scorciatoie.
Per quanto riguarda l’energia siamo in dirittura d’arrivo con la nuova Strategia Energetica Nazionale che definisce gli obiettivi in termini di ambiente, competitività e sicurezza delle reti e degli approvvigionamenti fino al 2030 e le azioni da intraprendere per conseguirli.
Tra le altre cose fisseremo la data di uscita, anticipata, dell’Italia dal carbone. Un obiettivo a cui si dovrà accompagnare l’impegno puntuale e dettagliato a realizzare le infrastrutture energetiche necessarie per sostituirlo. Come nel caso di Industria 4.0 anche la SEN, sviluppata con il Ministro Galletti, rappresenta un percorso che durerà nel tempo ma che produrrà i primi provvedimenti attuativi già nelle prossime settimane.
Nuova normativa sugli energivori e gasivori, corridoio di liquidità e Capacity Market sono i primi deliverables che contiamo di approvare da qui alla fine dell’anno. In particolare la nuova norma sugli energivori ci consentirà di ridurre sensibilmente il gap con la Germania in termini di costo dell’energia per questa categoria di imprese e mi fa piacere annunciare che la Commissione Europea ha finalmente approvato ieri il nuovo schema che potrà essere quindi portato nell’ordinamento nazionale.
La terza direttrice di lavoro è quella sull’internazionalizzazione dove proseguirà il piano straordinario Made in Italy con l’aggiunta del progetto “Alti Potenziali” che mira supportare le aziende da 50 a 150 milioni di euro di fatturato nella costruzione di percorsi di crescita personalizzati. Alti Potenziali è l’equivalente per le medie imprese dell’iniziativa sui temporary export manager che continuerà e verrà potenziata.
Manterremo poi il focus sugli accordi con la GDO internazionale e quello sulla razionalizzazione e il potenziamento del sistema fieristico. E chi lo sa, forse prima o poi ci riuscirà anche di riunire la nautica in un’unica associazione. Un compito pario solo a quello che spetta al Ministro Padoan quando cerca di convincere Scheuble sulla bontà degli eurobond o sulla necessità della garanzia europea sui depositi.
I dati dell’export, straordinariamente positivi nei primi mesi dell’anno, dopo il record in termini assoluti del 2016, indicano con chiarezza nell’aggancio alla domanda internazionale il percorso di crescita dell’Italia.
La segmentazione del sistema industriale 20-60-20 che io ed Enzo usiamo nei nostri interventi si sposa con l’altro dato che dobbiamo sempre avere presente, il rapporto tra esportazioni e PIL, che rimane quasi 20 punti sotto la Germania.
Colmare questa distanza vuol dire agganciare definitivamente la nostra crescita a quella mondiale, sfruttando tutto il potenziale del Paese e diventando più indipendenti dalla domanda interna che nei paesi maturi ha comunque meno spazi di crescita.
Portare più imprese appartenenti a quel 60% ad innovare e internazionalizzarsi è dunque non solo un obiettivo di politica industriale ma l’obiettivo paese che tutti dobbiamo perseguire.
Questo non vuol dire non prendersi cura del 20% spiazzato dalla globalizzazione. È quello che abbiamo fatto con i dazi sull’acciaio e con le iniziative sui call center. A questo proposito consentitemi di ringraziare i 13 grandi committenti che hanno firmato un protocollo per limitare la delocalizzazione anche in Europa e fermare le gare sotto il costo del lavoro. Una iniziativa senza precedenti che è un esempio di responsabilità sociale vera, non quella da convegni. Sappiamo che il futuro dell’Italia non è nei call center e che progressivamente la tecnologia sostituirà le persone, ma una cosa è gestire una transizione lunga, altra cosa è perdere migliaia di posti di lavoro all’anno per il dumping sociale.
Nei periodi trasformazione dell’economia e della società i tempi non sono una variabile ininfluente. Almeno questa lezione dovremmo averla imparata dalla prima fase della globalizzazione.
Cari Imprenditori,
queste sono le cose che vorrei portare a casa nei mesi, tanti, pochi o pochissimi, che ci separano dalla fine della legislatura.
Come la penso sulle elezioni è noto: bisogna arrivarci nei tempi giusti, evitando l’esercizio provvisorio, dopo aver completato la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà e con una legge elettorale che dia, non diciamo la certezza, ma la ragionevole probabilità della formazione di un Governo riducendo la frammentazione del sistema politico. Fino all’ultimo giorno utile dobbiamo poi continuare a lavorare con determinazione sull’agenda delle riforme, mantenendo una collaborazione forte e trasparente tra partiti di maggioranza ed esecutivo.
Non mi paiono aspettative eccessive o opinioni inopportune. E non penso che per esprimerle occorra prendere una tessera di partito. Lo spazio della discussione pubblica non è riservato ai politici di professione, e non ne sono esclusi ne i cittadini né i Ministri “tecnici”, qualsiasi cosa questa qualifica voglia indicare.
Io credo che tutti sentiamo quanto è complesso il momento che stiamo affrontando. Una paura diffusa della velocità del cambiamento e del futuro si è radicata nelle nostre società.
È una paura che non si può esorcizzare facilmente con l’ottimismo, perché trova elementi di conferma tanto drammatici quanto frequenti.
Per sconfiggere questa paura servono risposte forti, progetti lunghi e, soprattutto, la capacità di spiegare che problemi complessi richiedono soluzioni complesse.
Non è un compito facile ma è quanto richiesto alla classe dirigente di un grande paese. E voi lo sapete bene.
Cesare58
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