Ormai regna grande confusione, per via della moltiplicazione delle fonti. Ma bisogna polarizzare le contraddizioni tra oppressi e oppressori, per evitare che gli oppressi votino e si identifichino con gli oppressori, come nel caso di Trump.
«Fascismo sociale». Boaventura de Sousa Santos (foto sotto) non usa mezzi termini. La fase storica che stiamo attraversando è segnata dalla coesistenza tra regimi politicamente democratici e socialmente fascisti.
Per il sociologo portoghese, direttore del Center for Social Studies dell’università di Coimbra, tra i padri-fondatori del Forum sociale mondiale, intellettuale di riferimento del movimento altermondialista, la democrazia è in crisi, e la socialdemocrazia europea a rischio, perché sta venendo meno il contratto sociale, sostituito dal «ritorno dello stato di natura». Per salvare l’uno e l’altra, sostiene nel suo ultimo libro, “La Difícil democracia”, «la sinistra deve imparare dal Sud del mondo». E seguire due strategie: «Polarizzare le contraddizioni tra oppressi e oppressori» e «depolarizzare quelle tra gli oppressi». Lo abbiamo incontrato nel suo studio all’università di Coimbra.
Nel suo ultimo libro lei sostiene che la democrazia abbia perso quella tensione produttiva con il capitalismo che, almeno in Europa, ha dato vita a una forma particolare di contratto sociale, la socialdemocrazia. Perché è in crisi?
«Perché viviamo una tensione di fondo tra il costituzionalismo nazionale, dove sono state iscritte le regole democratiche, e il costituzionalismo globale, intrinsecamente anti-democratico, fatto di capitale finanziario, multinazionali, accordi di libero commercio, e mosso soltanto da avidità, accumulazione e profitto, un profitto cercato sempre più non nell’economia produttiva, ma nella finanza. In Europa la tensione tra democrazia e capitalismo sta scomparendo perché in sostanza scompare la democrazia, svuotata dei suoi contenuti. Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo provato a costruire una democrazia liberale corretta in nome della sovranità popolare, con la redistribuzione della ricchezza, l’inclusione sociale, i diritti economici e sociali, non solo civili e politici. La socialdemocrazia era una via democratica al socialismo, alternativa alla via rivoluzionaria. Oggi è minacciata perché nessuno – neanche le forze progressiste – ha preso sul serio i Trattati dell’Unione europea, espressione del neoliberismo che punta a distruggere la socialdemocrazia dall’alto al basso, evitando di passare per i contesti nazionali, caratterizzati da partiti socialisti e progressisti organizzati, Costituzioni forti, movimenti sindacali».
Lei ha parlato della «fine del contratto sociale», a causa di due tendenze opposte ma complementari, il pre e il post-contrattualismo, che si traducono nel «predominio strutturale dei fenomeni di esclusione»: il fascismo sociale. Di cosa si tratta?
«È la coesistenza tra regimi politici formalmente democratici e relazioni sociali sostanzialmente fasciste. In Europa, con la fine della guerra, abbiamo pensato che il fascismo fosse un particolare regime politico, e che fossimo ormai pienamente democratici. Ma dietro al fascismo ci sono delle specifiche relazioni sociali, quelle che le popolazioni coloniali hanno vissuto quando erano alla mercé dei padroni, degli amministratori coloniali, della filantropia delle chiese. Vivevano ciò che definisco come un’esclusione abissale, che li rendeva non del tutto umani, privi di diritti, alla mercé degli altri. Oggi assistiamo a una doppia dinamica simile: da una parte fasce
di popolazione sempre più ampie sono escluse sin dall’inizio dal contratto sociale, non hanno speranza di potervi entrare a far parte – è il pre-contrattualismo, la contrazione della società civile – dall’altra si allarga la “società civile incivile”, composta da tutte quelle persone che vengono sbattute fuori dalla società civile, nella giungla sociale (il post-contrattualismo), nello stato di natura, in condizioni simili a quelle vissute dalle popolazioni coloniali».
Qui c’è traccia di una sua convinzione profonda: l’idea che il capitalismo si accompagni sempre a due altre forme di sfruttamento e dominio, il colonialismo e il patriarcato…
«È così. È un’illusione ritenere che il colonialismo sia finito. Oggi non passa più per l’occupazione militare, ma per xenofobia, razzismo, discriminazione, esclusione sociale, saccheggio delle risorse naturali. Ci siamo illusi – anche a causa di Marx – che con l’evoluzione delle società moderne il contratto sociale avrebbe eliminato lo stato di natura originario, progressivamente abbandonato. Ci siamo scordati, invece, che una volta creato il contratto sociale abbiamo creato anche lo stato di natura. Non era visibile, perché vigeva nelle colonie, ma non è mai sparito. E oggi torna nelle nostre società, dove la tensione tra i due principi della regolamentazione e dell’emancipazione sociale viene sostituita con quella tra violenza e appropriazione, che pensavamo riservata alle colonie».
A dispetto delle critiche che rivolge alla «democrazia di bassa intensità», compatibile con il fascismo sociale, lei sostiene che la democrazia debba restare un orizzonte utopico, «un’utopia concreta e realistica». Ma può ancora essere uno strumento di emancipazione?
«Il Ventesimo secolo è cominciato con la rivoluzione e il riformismo, due modelli di trasformazione sociale diversi ma entrambi legittimi, che hanno diviso la sinistra. Con la caduta del muro di Berlino sono collassati sia il comunismo sia la socialdemocrazia, e il neoliberismo ne ha approfittato per sostenere che non ci sono alternative. Non è così. Non abbiamo bisogno di alternative, ma di un modo alternativo di pensare alle alternative. Per farlo possiamo seguire due criteri: da una parte ripensare profondamente le nostre categorie occidentali, archiviando per esempio il binomio riforma-rivoluzione e l’idea che la democrazia sia alternativa alla rivoluzione, perché oggi se vogliamo salvare la democrazia e il contratto sociale dalle forze antidemocratiche e oligarchiche dobbiamo essere rivoluzionari; e dall’altra compiere un atto di umiltà, andando al Sud globale per imparare dal Sud. In particolare, l’Europa dovrebbe andare a scuola dal resto del mondo, da studente».
L’Europa cosa imparerebbe, se sviluppasse una «epistemologia del Sud»?
«Che non esistono soltanto due forme di democrazia, quella rappresentativa e, al meglio, quella partecipativa, ma una demodiversità: modi diversi di deliberare, decidere, discutere. E che l’economia capitalistica va ripensata. Non per eliminarla, ma perché le società sono plurali a livello economico: esistono economie contadine, socialiste, indigene, popolari, cooperative… Con la mia epistemologia del Sud suggerisco due altre coordinate, per l’Europa e la sinistra: polarizzare le contraddizioni tra oppressi e oppressori, per evitare che gli oppressi votino e si identifichino con gli oppressori, come nel caso di Trump, e depolarizzare le differenze tra gli oppressi, tra donne, rifugiati, contadini, lavoratori, immigrati. A causa della tradizione di dogmatismo e settarismo della sinistra è un’operazione difficile. Ma è possibile, come dimostra l’attuale governo progressista del Portogallo».
robyuankenobi
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ronin
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un bel esempio dove gli oppressi hanno votato e si sono identifichati con gli oppressori, è la francia votando macron
in questo filmato scherzoso, alla balasso come dice peter pan, c’è del vero
VOTRE NOUVEAU PRÉSIDENT (celui qui parle CASH) – Jean Kultaraz
https://www.youtube.com/watch?v=Rx4i4QGtPFU
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