La Capitale simbolo della guida pentastelata non va. Partendo proprio dalle ordinanze del sindaco: su 227 atti ben 149 – i due terzi – hanno a che fare con nomine, revoche o deleghe assegnate ad assessori e dirigenti.
Se un anno di Virginia Raggi lo si giudicasse dalle strade attorno casa sua, si potrebbe nutrire il sospetto che la città abbia trovato il sindaco giusto. Piccoli e ordinati contenitori per la differenziata, raccolta porta a porta, un via vai continuo di mezzi. Se non fosse per la piaga delle buche e delle radici, certe vie di Borgata Ottavia sembrano uscire da uno spot di pubblicità progresso. Purtroppo l’attenzione al decoro in certi angoli dell’Urbe abitati dai politici è una tradizione dell’Ama che non conosce colore. L’illusione di un’altra Roma dura lo spazio di qualche centinaio di metri, ciò che separa la realtà dalla rappresentazione. Basta imboccare Via di Casal del Marmo e Roma riprende le sembianze note ai più. È di questi giorni l’ennesima emergenza rifiuti.
Per capire quanto disti un anno di realtà dalla rappresentazione che ne fanno i suoi vertici, proviamo a fare un bilancio del governo Cinque Stelle della Capitale partendo dai numeri. Per valutarli abbiamo chiesto più volte un incontro al sindaco Raggi, la quale ha rifiutato senza spiegazioni. Partiamo proprio dalle ordinanze del sindaco: su 227 atti ben 149 – i due terzi – hanno a che fare con nomine, revoche o deleghe assegnate ad assessori e dirigenti. Stessa cosa è avvenuta in Giunta: su 258 delibere, 75 – più di un terzo – riguardano l’assunzione di personale esterno. La Raggi ha passato gran parte del tempo da sindaco a occuparsi di poltrone: la sua giunta ha messo a contratto 102 collaboratori esterni, dodici in più di quelli nominati da Ignazio Marino, quindici in più dell’era Alemanno. Si dirà: il primo anno serve a scegliere persone di fiducia. Per lei è stata un’operazione particolarmente complessa, e va oltre la fisiologia del cosiddetto spoil system. Nonostante i tentativi (quattro), alla macchina comunale del Campidoglio mancano ancora il capo di gabinetto e due assessori (Lavori pubblici e Servizi sociali). In un anno sono cambiati il vicesindaco, l’assessore all’Ambiente, quello all’Urbanistica, due volte il titolare del Bilancio. Solo all’Ama si sono avvicendati quattro amministratori delegati e due direttori generali. E non è finita qui: entro la fine dell’anno c’è da rinnovare il consiglio di amministrazione di tutte le società partecipate per le quali è stato introdotto l’obbligo dei tre componenti.
L’Azienda dei rifiuti è la chiave del successo o del fallimento del governo Cinque Stelle della città. Lo smaltimento dei rifiuti a Roma costa quattro volte quello di Milano, perché Ama è in grado di trattarne appena il 20 per cento: il resto lo paga ai privati e per trasportare l’immondizia in giro per l’Europa. Fra promesse di “modelli spagnoli”, “chilometri zero” e “riutilizzo totale degli scarti” nell’ultimo anno la situazione è persino peggiorata. Nel tentativo disperato di tenere al riparo le strade dai rifiuti ingombranti e da certa maleducazione, la percentuale di raccolta differenziata è scesa al 42 per cento, un punto in meno di un anno fa e in controtendenza rispetto al +8 per cento degli ultimi anni fa. Il nuovo piano industriale ridurrà gli investimenti: invece dei 300 milioni previsti per la creazione di nuovi ecodistretti e l’acquisto di mezzi, ne resteranno solo 110 per i mezzi.
Nel frattempo l’unica decisione concreta è stata quella di affossare il progetto per il nuovo impianto di compostaggio a Rocca Cencia, inviso ai residenti. Da maggio a oggi ci sono stati tre strani incendi in altrettanti impianti di trattamento dei rifiuti: a Castelforte, Viterbo e Malagrotta. Di recente il ras del settore Manlio Cerroni ha annunciato che i due impianti dell’indifferenziata a Malagrotta non tratteranno più 1250 tonnellate di immondizia al giorno, ma solo 800. L’Ama sta tentando di aprirne uno nuovo a Ostia, ma a ottobre si vota nel Municipio e i vertici del M5S della zona sono contrari. Risultato: negli ultimi giorni nei quartieri a est della Capitale la situazione della raccolta è di nuovo al collasso.
Sull’azienda incombe poi il rischio del dissesto finanziario: poiché il Comune sta pensando di togliere all’Ama la gestione diretta della tariffa sui rifiuti, il pool di otto banche capeggiato da Bnl minaccia la cancellazione di un finanziamento di 600 milioni. Alla faccia del chilometro zero, seicento milioni è quanto l’azienda stima di spendere nei prossimi quattro anni per far smaltire ai privati quattro milioni di tonnellate di rifiuti. Il piano dell’ex numero uno Daniele Fortini prevedeva entro il 2021 di far salire all’80 per cento la quantità di rifiuti trattata direttamente da Ama. Per la gioia dei privati l’ultimo piano industriale approvato – quello deciso dalla ormai ex numero uno Antonella Giglio – ha abbassato quella stima al 29 per cento. Non solo: secondo quanto raccontano fonti interne all’azienda, starebbe aumentando anche il numero di appalti affidati con trattativa diretta invece che con regolare gara.
Fra le promesse della Raggi c’è quella di rimettere a posto i conti disastrati della Capitale. In campagna elettorale ha insistito su un tema popolare: la rinegoziazione del debito monstre in mano alle banche. Finora si è limitata a far votare al Consiglio comunale 143 delibere per il pagamento di debiti fuori bilancio su un totale di 179. Delibere votate quasi tutte a cavallo di Natale e che valgono circa cento milioni di euro: la Corte dei Conti ora indaga sospettando danni erariali.
La giunta ha discusso 25 delibere sulle società partecipate dal Comune, ma del piano di razionalizzazione della megaholding pubblica c’è solo un progetto sulla carta. Per scriverlo, l’assessore Massimo Colomban – un grosso imprenditore veneto mandato dai vertici in soccorso alla Raggi – si è affidato a Paolo Simioni, già amministratore dell’aeroporto di Venezia, nel mirino delle opposizioni per i 240mila euro di stipendio pagato quota parte da ciascuna delle tre grandi società, Atac, Acea e Ama. Il piano – ambiziosissimo – prevede di scendere da 40 controllate a 10-12 aziende, e la dismissione di parte delle quote di Adr, Centrale del Latte e della stessa Acea.
In realtà gli atti rilevanti votati finora in consiglio comunale sono solo due: il via libera preliminare allo stadio della Roma e l’adozione di un nuovo regolamento sugli ambulanti che aggira l’obbligo di gara previsto dalla direttiva Bolkenstein già ribattezzato “salva Tredicine” dal nome della famiglia proprietaria di decine di camion e bancarelle. Su 179 delibere, due hanno riguardato l’urbanistica e i trasporti, una sola la cultura, una la scuola. L’unico atto sulla scuola degno di nota è però frutto di una proposta della capogruppo Pd Michela Di Biase che consente alle mamme di consegnare il latte materno negli asili nido.
Se ci accontentassimo degli annunci la Raggi si meriterebbe un dieci. Prendiamo le strade. Il sindaco rivendica un piano buche e porta con sé le fotografie di alcuni tratti rifatti, ma nel frattempo per ovviare alla scarsa manutenzione, in tre arterie della città – Aurelia, Cristoforo Colombo e Salaria – è stato imposto il limite a trenta all’ora. Intendiamoci, governare una città come Roma non sarebbe facile per nessuno. A marzo la Raggi ha rimesso in strada 15 filobus nuovi fermi da tempo nei garage dell’Atac. Nel giro di 24 ore quattro mezzi erano già fuori uso per problemi tecnici. «Cuciniamo con quel che abbiamo», si difese la sindaca.
La sindrome dell’annuncite è direttamente proporzionale alla scarsità delle risorse. Mentre l’Atac conta più di trecento guasti al giorno ad altrettanti mezzi, l’assessore alla Mobilità Linda Meleo porta in giunta un piano per l’introduzione di sei nuove linee del tram, tre funivie e il prolungamento della linea B della metropolitana. Peccato che l’unica certezza sia il caos attorno al futuro della linea C, le cui ruspe fanno mostra di sé ai fori imperiali. A novembre dell’anno scorso il consiglio comunale ha votato una mozione straordinaria per lo scioglimento di Roma Metropolitane, la società che gestisce il cantiere. Nel frattempo fra sindaco, consiglieri e assessori si è aperto il dibattito su dove fermare il tracciato: se al Colosseo, al Corviale o al Flaminio. Il solito Colomban, una sorta di commissario prefettizio della Raggi, ha spento il dibattito durante una riunione della Commissione trasparenza: Roma Metropolitane va avanti, mozione o non mozione.
Fra le mura solenni dell’aula Giulio Cesare si consumano scontri epici non solo con l’opposizione del Pd e di Fratelli d’Italia, ma anche nella maggioranza bulgara del Movimento. Da un lato il sindaco e il braccio destro Daniele Frongia, sostenuti da Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, dall’altra i consiglieri romani guidati da Roberta Lombardi e Marcello De Vito. Quando il gruppo si ricompatta, il dissenso è soffocato. Ne sanno qualcosa Cristina Grancio e Gemma Guerrini, entrambe vicine all’espulsione per essersi opposte al progetto sullo stadio della Roma. In mezzo gli uomini mandati da Davide Casaleggio e Beppe Grillo a evitare il peggio: il già citato Colomban e il neopresidente dell’Acea, l’avvocato genovese Luca Lanzalone, delegato dal sindaco anche alla trattativa sullo stadio.
I tecnici Colomban e Lanzalone appaiono come la quintessenza del realismo grillino. Per chi come la Raggi amministra la cosa pubblica e non ha sufficiente esperienza politica dire no è più semplice di un sì. Ad una olimpiade, a un nuovo impianto di trattamento dei rifiuti o allo scavo della metropolitana. Ma talvolta i no possono essere fatali all’immagine della città. Ne sanno qualcosa gli abitanti dell’Eur abituati alla vista di un ecomostro a pochi metri dalla nuvola di Fuksas. Fu uno dei primi atti della giunta Raggi: la revoca del permesso a costruire per il restauro delle torri. Sembrava la fine di una storia tutta italiana: dopo anni di tira e molla con gli altri azionisti, Cassa depositi e prestiti e Telecom si erano unite nel progetto per la costruzione della nuova sede del gigante telefonico. Il no dell’allora assessore Paolo Berdini ha offerto all’azienda l’alibi perfetto per rinunciare ad un progetto nel frattempo giudicato troppo costoso.
Fonte: La Stampa