Il futuro di Pop Vicenza e Veneto Banca sarà più definito nelle prossime ore, con un decreto del governo atteso entro il weekend e che dovrebbe aprire la strada alla proposta di Intesa Sanpaolo per l’acquisto degli asset sani delle due banche venete al prezzo simbolico di 1 euro.
Crack banche venete: Intesa Sanpaolo vuole Pop. Vicenza e Veneto Banca (a 1 euro)
Il governo italiano interverrà nel fine settimana per garantire l’operatività delle Popolare di Vicenza e di Veneto banca e tutelare i risparmiatori dopo che la Bce ha dichiarato stasera i due istituti in condizione di “failing or likely to fail”.
Lo rende noto un comunicato del Tesoro ricordando che il Single Resolution Board ha deliberato che “non sussistono tutti i requisiti previsti per una risoluzione”.
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Di conseguenza, “il governo si riunirà nel fine settimana per adottare le misure necessarie ad assicurare la piena operatività bancaria, con la tutela di tutti i correntisti, depositanti e obbligazionisti senior”, spiega il ministero di via XX Settembre.
Questa settimana Intesa Sanpaolo ha presentato la proposta di acquisto per gli asset sani di Pop Vicenza e Veneto Banca al prezzo simbolico di 1 euro. L’istituto ha subordinato l’operazione a un intervento legislativo del governo e all’ok delle autorità europee coinvolte. (Reuters)
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Il governo deve intervenire velocemente entro il weekend e prima della riapertura lunedi. Più del capitale (Cet1), è la liquidità a determinare il fallimento di una banca, per cui predisporre la liquidazione non caotica ed evitare che la corsa agli sportelli dei depositanti impauriti determini un crack diventa essenziale.
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Il ministro delle Finanze Padoan deve garantire la piena operatività bancaria, con la tutela di tutti i correntisti, depositanti e obbligazionisti senior. Ieri si sono tenuti i Cda lampo delle due banche per fare il punto della situazione, mentre di rientro dal summit Ue di Bruxelles il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha incontrato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Colloqui anche tra vertici di Banca d’Italia, Mef e Intesa Sanpaolo.
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Ma non è ancora stato convocato il Consiglio dei ministri per l’approvazione del decreto sulle due banche venete, Popolare di Vicenza e Veneto Banca, che andranno in liquidazione. Nella serata di ieri si ipotizzava una riunione oggi all’ora di pranzo ma, a quanto si apprende, è ancora in corso il lavoro di scrittura e limatura del testo. Il Cdm potrebbe dunque essere convocato per questa sera, difficilmente prima delle 18. Ma non è escluso neanche un ulteriore slittamento.
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La Bce ha accertato che Veneto Banca e Pop Vicenza e Veneto sono in ‘dissesto o a rischio di dissesto’ e che quindi saranno liquidate in base alle procedure di insolvenza italiane.
In una nota la Banca Centrale Europa spiega che la decisione di classificare le due banche venete come ‘failing or likely to fail’ è motivata dalle carenze di capitale e dalla “ripetuta violazione dei requisiti patrimoniali di vigilanza”.
“Nonostante il tempo concesso dalla Bce per la presentazione dei piani patrimoniali, le due banche non sono state in grado di offrire soluzioni credibili per il futuro”.
La situazione di ‘dissesto o rischio di dissesto’ è stata quindi comunicata dalla Bce al Single resolution board che non ha riscontrato le condizioni per avviare la risoluzione delle due banche. In questo caso le autorità nazionali di risoluzione provvedono alla liquidazione dei soggetti coinvolti con procedura ordinaria di insolvenza conformemente al diritto nazionale.
Dopo il comprehensive assestment del 2014 le dua banche non sono riuscite ad risolvere il problema degli elevati livelli di crediti deteriorati.
Nonostante l’investimento di circa 3,5 milardi da parte del fondo Atlante nel 2016 “la situazione finanziaria delle due banche si è ulteriormente deteriorata nel 2017. La Bce ha pertanto richiesto alle banche di presentare un piano di ricapitalizzazione per assicurare il rispetto dei requisiti patrimoniali. I piani industriali sottoposti da entrambe le banche non sono stati ritenuti credibili dalla Bce”, conclude. (Reuters)
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Non è la cifra in sé, dice Stefano Caselli, docente di economia degli intermediari finanziari all’Università Bocconi. Piuttosto, «sono le risorse sprecate con il temporeggiamento». Sono più di 31 miliardi i soldi spesi per evitare il collasso di sistema bancario definito per anni «solido» nelle dichiarazioni ufficiali. Soldi delle banche sane e dei loro correntisti, soldi dei contribuenti e soldi dello Stato. Poco meno di due punti di Pil. O, se si preferisce, abbastanza per tagliare di quasi un punto e mezzo il debito pubblico. Sono numeri ancora provvisori ma rendono bene l’idea. Più di un miliardo e mezzo di euro al mese, se si considera il primo intervento quello fatto su quattro piccole banche dell’Italia centrale nel novembre del 2015.
Epidemia bancaria
Il «paziente zero» dell’epidemia bancaria italiana si chiama però Mps. Viene scoperto nel gennaio del 2013. Scandali, inchieste e aumenti di capitale si trascinano per quattro anni. A giorni dovrebbe arrivare il via libera europeo per la sua nazionalizzazione. Da solo costa almeno 8,8 miliardi, in parte soldi dei contribuenti e in parte degli investitori che avevano comprato i suoi bond subordinati. Dal focolaio senese, la crisi bancaria italiana passa a colpire soggetti più fragili. In un fine settimana di novembre dello 2015 viene decisa la risoluzione di quattro piccole banche locali che valevano, tutte insieme, appena l’1% del mercato bancario italiano. L’obiettivo dichiarato era evitarne il fallimento e rivenderle in breve tempo, ripulite e di guadagnarci anche un po’. Banca Marche, Etruria, CariFerrara e CariChieti sono costate almeno 5,3 miliardi al sistema bancario, che ha finanziato il fondo di risoluzione. Poi sono state comprate da Ubi Banca e Bper per un euro nei mesi scorsi. Nella primavera dello scorso anno intanto scoppia il bubbone delle popolari venete. Il fondo Atlante, promosso dal governo ma finanziato dal sistema bancario e dalle fondazioni, ci mette dentro 3,5 miliardi di euro. Doveva essere la soluzione definitiva del problema. Passato dall’azzeramento di oltre 200 mila azionisti e da oltre 10 miliardi di ricchezza bruciata. Ma la fornace accesa in anni di gestione sconsiderata tra Vicenza e Montebelluna ha continuato a bruciare e ha cancellato anche i soldi di Atlante, fino all’inevitabile e tribolato intervento statale di oggi.
Contribuenti e correntisti
«Se la soluzione sono i soldi dei depositanti alla fine si tratta sempre dei soldi dei contribuenti», dice Caselli. Perché i soldi bruciati da Atlante erano soldi delle banche, come erano soldi del sistema bancario quelli spesi per le quattro banche e per tre piccole casse di risparmio in crisi (San Miniato, Rimini e Cesena). Il totale dei soldi spesi dal sistema bancario per evitare il collasso del sistema bancario sono stati pari a circa 12 miliardi di euro. Soldi almeno in parte recuperati grazie agli aumenti dei costi dei conti correnti.
Si arriva così ai soldi pubblici, cioè dei contribuenti, senza intermediazioni. Per Montepaschi serviranno almeno 6,6 miliardi, per le due banche venete addirittura di più: forse fino a nove miliardi. Non bastano: altri tre o quattro miliardi arriveranno dall’azzeramento del patrimonio e delle obbligazioni subordinate.
Temporeggiamento
Ci sarebbe da calcolare il costo delle crisi di fiducia, quello del finanziamento sui mercati delle banche italiani e quello per la raccolta per le banche in difficoltà. Intervenire prima, a Vicenza come a Siena o ad Arezzo, poteva servire per risparmiare dei soldi. «Adesso è facile da dire – dice Caselli -. Di certo il tema della vendita dei crediti non performanti è stato sottostimato. Forse la nostra presenza a Bruxelles non è stata così decisiva. Ma che si dovesse intervenire con soldi pubblici io come altri osservatori lo sosteniamo da anni». Alla fine ci siamo arrivati. Nel frattempo abbiamo già pagato tutti.
ronin
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