Criptovalute, nuova frontiera finanziaria o prossima bolla speculativa?

Le “monete digitali” hanno un valore di 120 miliardi di dollari e puntano ai Millenials, ma non esistono controlli pubblici.

Nel linguaggio della finanza la parola “criptovaluta” si sta espandendo a macchia d’olio e con una certa rapidità. Se ne parla perché è il segno del cambiamento dei tempi, certo, ma anche perché è una fonte di profonde preoccupazioni.

Il volume del business delle valute digitali sta crescendo a vista d’occhio, tanto da riuscire ad attirare l’attenzione delle major, che restano comunque guardinghe sul reale effetto che potrà avere sui mercati una “moneta virtuale” con una volatilità imprevedibile e brutale. Chi opera in questo settore, infatti, punta più che altro ai giovani, alle nuove generazioni, facendo leva sull’insabilità del loro futuro.

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In un articolo pubblicato da Repubblica, vengono analizzati alcuni aspetti di questa nuova “frontiera”, che “A dispetto del nome che sembra evocare le grandi truffe del passato, dal caso Madoff allo scandalo Enron, dal ‘Lupo di Wall Street’ alla ‘Balena di Londra’, le criptovalute – in gergo cryptos – continuano a farsi strada nella finanza globale”.

Infatti, “le criptovalute sono ormai centinaia: Ethereum, Ripple, LiteCoin, Dash, Monero, Zcash e tante altre. Hanno allargato la base di investitori. Sono viste con interesse da giganti come Microsoft e Jp Morgan. E, secondo Coinmarketcap, il sito che ne segue l’andamento, hanno un valore complessivo di mercato sui 120 miliardi di dollari, cioè più di 6 volte quello della capitalizzazione di Borsa di Fiat Chrysler”.

Stando ai numeri, prosegue il quotidiano romano, “negli ultimi giorni i Bitcoin in circolazione hanno superato l’equivalente di 55 miliardi di dollari, gli Ethereum, secondi, i 25 miliardi. I cryptos sono in pratica monete virtuali, alternative rispetto a quelle emesse dai governi, il cui valore viene stabilito attraverso scambi in tempo reale su network decentralizzati, ma senza alcun controllo pubblico. Versando soldi ‘veri’, gli investitori ricevono per via elettronica l’ammontare di valuta digitale secondo il prezzo di mercato di quel momento”.

Il problema è che “a parte la complessità di operazioni del genere per chi non è pratico con l’informatica, le criptovalute hanno oscillazioni di prezzo spesso violente. All’inizio di agosto il Bitcoin cash, nato da una costola di Bitcoin, dopo polemiche, furti e scandali che hanno accompagnato il gruppo originario, ha perso la metà del valore in poche ore, per poi quadruplicarlo l’indomani. È passata da 1 solo centesimo a fine marzo a 40 centesimi dopo due mesi”.

Un vero e proprio salto spazio-temporale finanziario. Ecco perché i giovani sono la vera fetta di mercato che le “monete digitali” vogliono conquistare. Meglio provare a coinvolgere chi ha bisogno di un futuro ma non ha il ‘paracadute’ del passato, che rivolgersi a un passato che ha nessuna necessità di spalancare le porte a un nuovo futuro. “Secondo gli antropologi della finanza è proprio questo il vero segreto del successo dei cryptos: i Millennials, che non possono più contare su una rete di protezione del sistema pensionistico, che vedono con sospetto il mercato azionario è che sono inevitabilmente influenzati del populismo anti-global, sono invece pronti ad accettare la sfida delle valute digitali. Il risultato? – scrive ancora Repubblica – Da un lato le criptovalute sono sempre più accettate come strumento ‘normale’ di investimento (o speculazione), dall’altro questa ‘euforia irrazionale’ sta creando una immensa bolla, oltre a nuove inquietudini”.

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Inoltre, “la Sec, ad esempio, ha appena deciso di frenare le Initial coin offering, cioè i collegamenti di valuta digitale per il finanziamento delle startup. Sono diventati molto diffusi (nei primi mesi del 2017 sono serviti a raccogliere quasi 2 miliardi di dollari), ma l’assenza di qualsiasi controllo ha suggerito all’Authority di Washington di imporre le stesse regole stringenti in vigore per le offerte di titoli azionari”.

Ma cosa ne pensano i mercati delle criptovalute? Secondo l’analisi “sui pericoli della bolla cryptos, invece, Wall Street è divisa: c’è chi pensa che non possa che esplodere, magari in coincidenza con un tonfo dei mercati. Ma molti ritengono anche che le criptovalute, magari assottigliate nel numero, diventeranno uno strumento permanente e che le preoccupazioni di oggi non siano molto diverse dei primi passi di Google o Amazon”.

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Lettera / Il lancio di una start-up possibile ovunque, ma è un reato in Italia

Diversi anni fa un raffinato economista americano mi trasmise un insegnamento che mi ha aiutato molto a capire i fatti. «In ogni articolo di giornale che leggi c’è nascosta una decisione di public policy, va solo individuata e quantificata», mi spiegò il professor Richard Zeckhauser. Dietro ogni accadimento sociale o umano si cela un fenomeno economico che impatta sulla regolamentazione, la tassazione, la spesa pubblica o altro ancora e da questo dipende il presente e ancor di più il benessere futuro.

Ho applicato lo stesso insegnamento alle mie esperienze di lavoro anche se con un taglio diverso: individuare nuovi settori in cui investire interpretando le novità. Almeno fino a quando era possibile farlo, intendo investire, in Italia. Mai c’è stata nella storia del capitalismo una situazione così favorevole con opportunità tanto generose per i professionisti della conoscenza, e mai tanto distante è stato il capitalismo italiano dalla possibilità di poterle cogliere.

Qualche esempio sul campo dell’impresa. Vorrei, entro l’anno, concludere un Ico, un initial coin offering cioè l’emissione di un token legato a una criptovaluta per finanziare una start-up molto innovativa. A livello mondiale, negli ultimi mesi, gli Icos hanno raccolto circa 1,5 mld di dollari e sono diventati una forma di crowdfunding originale. «Puoi farlo ovunque in Europa ma non in Italia perché da noi vige l’istituto del prodotto finanziario e la criptovaluta potrebbe essere considerata tale», mi spiega il mio avvocato nel chiarirmi che non c’è alcun problema a fare l’Ico con una società tedesca oppure irlandese. «Cosa rischio se pur di fare innovazione in Italia me ne frego della burocrazia senza senso?», chiedo al mio legale. «Rischi di essere incriminato penalmente», la sua risposta.

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Fondi una start-up di successo, anche capace di raccogliere milioni di dollari sul mercato internazionale, ma se la costituisci di diritto italiano rischi la galera. Come può creare occupazione e Pil un paese nel quale l’irrazionalità normativa e burocratica blocca ogni innovazione? Incontro Paolo Zaffaroni, ordinario di econometria finanziaria all’Imperial College, e discutiamo di big data e di intelligenza artificiale. «Mi sono laureato in statistica economica a Roma. L’Italia ha inventato prima nel mondo la facoltà di statistica. E cosa fa, adesso che con i big data e il machine learning la statistica diventa essenziale per fare impresa? La chiude, la accorpa con ingegneria», mi spiega.

Ormai fare impresa sulla frontiera dell’innovazione è diventato un esercizio impossibile. I politici non solo non se ne preoccupano ma neppure lo capiscono. Così accadrà che nessuno pagherà più i loro vitalizi. Difettano anche dell’istinto di sopravvivenza.

di Edoardo Narduzzi

Fonte: ItaliaOggi

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