Dal 1° gennaio 2017 l’Italia ha tagliato dal 27,5% al 24% l’Ires, l’imposta sul reddito delle società. Mentre in Gran Bretagna dal 1° aprile l’aliquota ordinaria sui redditi d’impresa è scesa dal 20% al 19%, con la prospettiva di scivolare al 17% nell’aprile del 2020.
E ieri negli Stati Uniti l’amministrazione Trump ha annunciato una riforma fiscale il cui piatto forte è un drastico taglio della corporate tax, dal 35% al 20%. Non sono tre casi isolati: come attesta uno studio dell’Ocse, “Tax Policy Reforms in Oecd”, in tutto il mondo sviluppato è scattata una competizione a chi abbassa di più le tasse. L’obiettivo è chiaro: diventare attrattivi per le grandi multinazionali straniere, con una ricaduta positiva sulla crescita economica.
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Secondo lo studio, l’aliquota media per le imprese nei Paesi Ocse, che superava quota 32% nel 2000, è progressivamente calata al 26% nel 2008 e al 25% nel 2015. I Paesi che hanno tagliato di più la corporate tax nel periodo 2000-2015 risultano essere Germania (21,9%), Canada (16,1%), Grecia (14%) e Turchia (13%), con soltanto Ungheria e Cile che hanno ritoccato verso l’alto le aliquote. Il gettito fiscale perduto è stato compensato dall’aumento di altre imposte, sottolinea lo studio, in particolare l’Iva, che nei Paesi Ocse è passata da un’aliquota media del 17,6% nel 2008 al 19,2% nel 2015.
Considerando il solo 2015, scopriamo che hanno ridotto il peso fiscale sulle società l’iperindebitato Giappone assieme a Spagna, Israele, Norvegia ed Estonia. Ma in Francia durante la campagna elettorale il presidente Emmanuel Macron ha promesso di ridurre la corporate tax dal 33,33% al 25% entro cinque anni, mentre anche in Germania si sta meditando un nuovo taglio dell’imposizione sulle imprese per non perdere competitività.
Un modo per pagare meno tasse c’è: è la concorrenza
Un caso di scuola resta quello dell’Irlanda.La famosa corporate tax al 12,5% che fin dall’inizio degli anni Duemila ha fatto la fortuna della Tigre Celtica si ritrovava, negli anni Ottanta, all’astronomico livello del 50%. Con un Pil cresciuto nel 2015 del 26,3% proprio grazie alle multinazionali che hanno spostato la loro sede nell’isola “fondendosi” con controparti irlandesi, Dublino è un ottimo esempio di come un’aggressiva detassazione possa far correre il prodotto interno lordo.
Invece gli Stati Uniti, con la loro corporate tax ferma al 35% dal lontano 1993, sembrano per ora i grandi sconfitti della gara a chi diventa fiscalmente più attrattivo. Attenzione però, perché in realtà i colossi americani versano in tasse molto meno di quanto si creda. Un recente studio dell’Institute on Taxation and Economic Policy, think thank indipendente con sede a Washington, ha preso in esame 258 aziende dell’indice Fortune 500 scoprendo che tra il 2008 e il 2015 hanno pagato il 21,2% di corporate tax anziché il 35% . Il tutto grazie ad agevolazioni fiscali che nel complesso hanno toccato i 513 miliardi di dollari, oltre la metà dei quali (277 miliardi) finiti alle 25 società più profittevoli tra quelle prese in esame.
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Sempre tra il 2008 e il 2015 ben 18 di queste compagnie non risultano aver pagato un centesimo di tasse: tra loro secondo lo studio ci sono colossi del calibro di General Electric, International Paper, Priceline.com e PG&E. Alcune di queste società hanno addirittura ottenuto dei rimborsi dal fisco federale. E tutto questo senza considerare le tecniche di elusione offshore della grande famiglia “double Irish”, grazie alle quali la corporate America si stima abbia accumulato 2500 miliardi di dollari all’estero (patrimonio che Trump vorrebbe rimpatriare con un forfait fiscale “una tantum”).
di Enrico Marro
Fonte: Il Sole 24 Ore