Ormai pare evidente che gli sforzi di Matteo Renzi per continuare ad avere voce in capitolo nella politica italiana sono un fallimento dietro l’altro. L’ex premier, fuori dal potere effettivo a cui l’avevano abituato i 1000 giorni a Palazzo Chigi, sta tentando disperatamente di recuperare visibilita’ e ‘soft power’ rispetto al discreto Paolo Gentiloni, l’attuale presidente del Consiglio che fa un lavoro alla fin dei conti non disprezzabile, concreto e certamente meno mediatico.
Il giovane e ambizioso Matteo – che sta facendo un inutile viaggio in treno in Italia a fini prettamente televisivi – ha dato il peggio di se’ di recente, alienandosi l’intera ‘classe dirigente’ del PD, con l’attacco ‘populista’ a Banca d’Italia, dettato da una logica tattica e non strategica: usare gli stessi sistemi dei partiti di opposizione – Salvini con la Lega, Grillo con il M5S e Meloni con Fratelli d’Italia – al fine di far leva sulle prevedibili ma mai scontate reazioni di pancia del popolo elettore.
Su questo tema, proponiamo qui sotto l’editoriale di Eugenio Scalfari, uscito su La Repubblica, con cui pare chiaro che anche uno dei massimi difensori dell’ex sindaco di Firenze – come appunto il fondatore di Repubblica – ha ormai cambiato idea sul fiorentino. “Ora (Renzi…) deve scegliere tra ritorno all’idea del partito aperto e un organo di consultazione e di attuazione di quanto deciso, oppure populismo fino in fondo all’insegna del “comando io” e allora, come Grillo e Salvini, diventeremo il peggio del peggio”, scrive Scalfari.
Il risentimento dell’intero Partito Democratico, che aveva eletto Renzi segretario con il 70% dei voti, e’ ormai alle stelle, per cui il ribaltamento al vertice del PD viene invocato a gran voce sia dai ‘maggiorenti’ sia dagli iscritti (sempre meno) e simpatizzanti (sempre meno). In questo scenario vanno messe infatti in conto, nei mesi a venire, sicure sonore affermazioni del centro-destra alle prossime tornate elettorali, a cominciare dal voto in Sicilia tra due settimane.
Scorciatoie populiste, gli errori più gravi del leader
Dobbiamo tornare sulla questione Renzi-Banca d’Italia non perché ci siano novità ma per esaminare le conseguenze e le varie interpretazioni. In favore di Renzi c’è un certo tipo di populismo: quei numerosi cittadini con patrimoni e redditi alquanto limitati, che – a torto o a ragione secondo i casi – maledicono le banche che per loro rappresentano gli interessi di un capitalismo ladro. È assai probabile che Renzi, conoscendo questo fenomeno che tutti conosciamo, abbia puntato su di loro per allargare la platea dei suoi ascoltatori e sperabilmente degli elettori per il Pd. Questa motivazione è tuttavia molto esile, rispetto alla mole dei contraccolpi che ha suscitato e susciterà.
Il primo è la contrarietà di una buona parte della classe dirigente del Pd, di quasi tutta la classe dirigente del Paese e della pubblica opinione. Il secondo è un errore vero e proprio: gli italiani che se la prendono con le banche hanno di mira quelle operanti sul loro territorio, qualcuna grande e molte piccole e locali, ma non la Banca d’Italia della quale molti ignorano le funzioni. L’attacco di Renzi invece è stato soltanto nei confronti dell’Istituto di emissione e non alle banche e banchette che egli anzi difende. È curiosa questa dicotomia: lui spera di ottenere voti da chi odia le banche, ma parlando contro la Banca d’Italia dimentica che questa ha come compito di difendere le banche in difficoltà e di solito lo esplica.
Il terzo errore riguarda il suo rapporto con le personalità più autorevoli del Pd. Nella celebrazione effettuata sabato della scorsa settimana al teatro Eliseo gremito nella platea e nelle tribune dalla parte migliore e più attiva del partito, Renzi ha riconosciuto la necessità che il partito non fosse chiuso ma aperto: un partito che aveva il compito di ringiovanire e ricostruire la sua struttura e la sinistra che è in crisi in tutti in Paesi d’Europa salvo finora in Italia. Prima di lui aveva parlato Walter Veltroni e poi Paolo Gentiloni. Veltroni in qualche modo aveva fatto la storia del partito, le origini, la sua cultura politica, e le sue caratteristiche strutturali. Quando Renzi ha preso per ultimo la parola ed ha concluso la celebrazione, ha riconosciuto a Gentiloni un’efficiente condotta del governo di cui il Pd ha la maggioranza, e a Veltroni addirittura una qualità di padre del partito e in qualche modo padre della patria. Sostenendo che queste persone facevano parte insieme a lui della dirigenza del Pd e che altre ancora ne avrebbe accolte accanto a sé per formare una vera e propria classe dirigente con la quale avrebbe discusso e concordato tutte le azioni importanti da svolgere. Insomma una sorta di super direzione con la quale il partito avrebbe avuto una guida collettiva, di cui naturalmente il segretario era il capo riconosciuto.