di Antonio Gnoli
Nel corso di questi anni mi è capitato a volte di chiedermi che fine avesse fatto Francesco Mercadante, un uomo appartato e ironico, dalla scrittura minuta e dalla vasta erudizione. Ne ricordavo il ruolo eminente nella casa editrice Giuffrè, specializzata in testi giuridici e avevo presente quel bellissimo lavoro sul commento di Leo Strauss alla Tirannide di Senofonte, nonché un libro degli anni Settanta che anticipava le odierne incursioni sulla democrazia plebiscitaria e infine un ampio e stranissimo volume di atti e testimonianze sul terremoto di Messina.
Ricordavo quest’uomo versatile, fornito di uno spirito secentesco, allievo indiretto di Giuseppe Capograssi, uno dei più grandi giuristi italiani del Novecento, e pensavo alle dune della sabbia che cambiano forma sotto il soffio dei venti, ma sempre restano tali. Non mutano nel profondo della loro sostanza. Poi, recentemente, l’ho rivisto. Mentre si infilava in un portone di un palazzo romano. L’andamento cauto, il passo ancora forte, la figura, bassa e taurina, inconfondibile nonostante il tempo trascorso. Sì, sempre lui malgrado tutto. Come stai, professore? Gli gridai. Sorpreso, si girò. Sto bene, rispose, mettendomi a fuoco. Ed era uno star bene senza rimpianti, nell’equilibrio nervoso delle persone che pensano molto e dormono poco. Mi invitò a salire. Tornai da lui esattamente una settimana dopo. C’eravamo lasciati su una frase.
C’è quella frase di Montesquieu riferita a Dio: uno di noi due è di troppo. Non so se l’hai pronunciata come un congedo o un avvertimento.
“Segnalavo la difficoltà ogni qualvolta pensiamo o ci misuriamo con l’assoluto. Quel principe dei moderati esaltava il moderno con la cautela del giurista di talento. Sai, ai vecchi talvolta vengono estri incredibili. Stavo rileggendo Gli dèi hanno sete di Anatole France, e pensavo che in quelle pagine, non particolarmente ispirate, sulla Rivoluzione francese c’è qualcosa che ci interpella”.
Cosa, esattamente?
“Una data, direi: 1789, la nascita degli immortali principi. La verità è che non ci crede più nessuno. E allora il punto è questo: come la salvi la democrazia che da quei principi traeva ispirazione? Nel corso di questi due abbondanti secoli si è realizzata più libertà e più eguaglianza. Ma la cambiale del progressismo su cui questi valori si sono appoggiati oggi è inesigibile”.
Il Novecento ha alternato progresso e dittatura.
“Sono sempre più convinto che le dittature dello scorso secolo non abbiano fatto altro che copiarsi l’un l’altra, fino a sfiorare il reato di plagio. Gli ometti che si sono trasformati in dittatori, sono meri stampi che hanno assecondato il cliché della crescita, nell’entusiasmo plaudente delle folle, e poi giù sempre più giù, nella ferocia collettiva, fin nella disfatta più buia. In quell’antro di psichica desolazione, che Salvatore Satta raccontò con arte impareggiabile in De profundis, si può formulare la domanda, tutt’altro che peregrina, perché gli italiani accettarono il fascismo?”
Fu forse per un misto di seduzione e di abbaglio.
“Tu dici? Secondo me non occorrono gli strumenti della psicologia di massa, anche quelli raffinatissimi che mise a punto Elias Canetti, per smontare i meccanismi del consenso. Una nazione, senza contratto, senza diritto, obbediente e acclamante, fu trascinata verso l’ignoto. In quell’epidemia di vassallate, come la chiamò Gaetano Salvemini, c’era qualcosa non di insolito, ma di ricorrente. Ba- stava spostare l’orologio indietro di qualche secolo per capire cosa fosse il perdurante tratto italiano”.
Quando giunse il fascismo al potere tu avevi cinque anni.
“Ne avevo quattro. A sei cominciai a lavorare. Per dodici ore al giorno aiutavo un operaio al tornio. Non puoi immaginare la fatica. Mio padre faceva il ramaio. Un uomo mite, alacre, geniale come sono certi padri ripensati dai figli. Eravamo di Castroreale, il paese delle madonne. Di me mio padre pensava che fossi un ragazzino senza fortuna e senza destino. Si sbagliava, ma lo capisco e quando morì, otto giorni prima che io compissi cinquant’anni, trovai nel suo portafogli il telegramma con cui gli avevo annunciato tanti anni prima la mia libera docenza. Il mio primo incarico fu a Messina con la cattedra di Filosofia del diritto. Il mio maestro, Vincenzo La Via, gentiliano di acute acrobazie metafisiche, se ne risentì”.
Perché?
“Voleva che il giovane filosofo fosse puro, incorruttibile, dedito alla speculazione disinteressata. All’università La Via era dirimpettaio di Galvano della Volpe e quest’ultimo, che aveva notato in me una certa predisposizione a mescolare, mi propose di passare alla sua cattedra. Rifiutai, non senza qualche esitazione. Dopo gli anni di Messina giunsi a Roma nel 1969. Occupai la cattedra che era stata di Giuseppe Capograssi. Quell’anno arrivò anche Augusto Del Noce”.
Capograssi fu uno studioso particolare, provenendo dal mondo giuridico.
“Fu talmente particolare da essere calpestato dalla scuola di Giovanni Gentile. Il suo libro Analisi dell’esperienza comune, che risale agli inizi degli anni Trenta, mostrava che la sfida all’idealismo era stata lanciata. Fu antifascista già nel 1921 e uomo di Dio, come pochi”.
Uomo di Dio in che senso?
“Nel senso stesso con cui pronunciò per il geniale amico Flavio López de Oñate la frase: “Dio accetta anche gli pseudonimi”. L’unica cosa che non accetta, aggiungo io, sono gli assegni in bianco. Fu nel 1942, due anni prima che morisse, che de Oñate pubblicò uno dei grandi libri che ancora oggi bisognerebbe tenere accanto: La certezza del diritto, che alla Giuffrè riproponemmo nel 1968, quando il diritto era tutto tranne che certo. Capograssi sapeva circondarsi di uomini interessanti. Aveva conosciuto e frequentato Salvatore Satta e provò, incontrando mille difficoltà, a far pubblicare quel piccolo capolavoro che è il De profundis “.
Anche “Il giorno del giudizio” subì la stessa sorte.
“Fu un libro rifiutato dall’intero mondo editoriale. Poi finalmente un editore di testi giuridici, Cedam, lo pubblicò. Ricordo la gioia del mio amico Enrico Opocher che parlò in proposito di un nuovo Gattopardo. Modestamente contribuii a che Adelphi riscoprisse questo autore che proveniva da un mondo altro”.
Era un giurista. Vi conosceste?
” Con Satta ci conoscemmo negli anni in cui frequentò la Giuffrè. Fu un uomo che seppe trovare la giusta complicità tra il pensiero e la vita. Ed ebbe un’autentica vocazione per la parola scritta. Pensava che ci fosse da qualche parte un “Dio nascosto” che prima o poi ti avrebbe chiesto come avevi speso il tuo talento. Il suo fu ben distribuito tanto negli studi di procedura civile quanto nell’esperienza letteraria”.
Quanto sono stati importanti gli anni trascorsi in casa editrice?
” Lo sono stati a partire da quel felicissimo incontro con una delle figure più straordinarie del mondo del diritto: Francesco Calasso, padre dell’altrettanto famoso Roberto. Fu lui a creare per la Giuffrè . Il primo volume comparve nel 1958 e la diresse fino al 1965, l’anno in cui morì. Fu il massimo esperto del medioevo del diritto. Uomo difficile, a volte, ma anche dotato di grande rettitudine”.
Vinci la cattedra a Roma nel 1969. Che clima vivi?
” Un clima infuocato. In una progressione rapidissima tutte le istituzioni, a cominciare dall’università, erano state minate alla base. La storia ovviamente aveva già conosciuto scoppi così improvvisi ed estesi. Ma era come se una generazione intera avesse abolito l’idea stessa di limite. Tutto sembrava possibile. Salvo poi rientrare nella dura realtà”.
Accennavi al fatto che quell’anno arrivò anche Augusto Del Noce. Che ricordo hai di lui?
“Quello di un uomo la cui intelligenza nel leggere i testi era fuori dal comune. Ricordo che della Volpe nel 1948 gli avrebbe dato volentieri la cattedra considerandolo il miglior filologo di Marx. Quanto a me trovavo mentalmente incantevoli i suoi rari articoli. Fu una creatura stranamente volatile. Certo, complicata da morire e massacrata dall’establishment culturale”.
Alludi all’intellettualità di sinistra?
” La sinistra tranne Cacciari, Marramao e pochissimi altri non aveva nessun interesse verso le sue problematiche. La sua avventura di pensatore non ha riscosso alcuna fortuna. In quegli anni, nella destra tradizionale, c’era ancora la supremazia di Ugo Spirito. Ma Del Noce mi parve sempre più solido”.
Filosofi e scrittori cattolici non hanno mai avuto in Italia, nel Novecento, particolare fortuna. Perché?
“Sono stati vissuti come un triste anacronismo della storia culturale di questo paese. Peccato, mi sentirei di aggiungere”.
Del cattolicesimo di Del Noce cosa pensi?
“Quello filosofico c’era tutto. Però non ho mai capito la sua adesione al movimento di Comunione e liberazione. Alcune scelte non le ha azzeccate. Ma sotto certi atteggiamenti, perfino scomposti e velleitari, vedevo battere il cuore autentico dell’uomo di Dio. Un cuore che aveva sofferto. La sera in cui passò a miglior vita, fui chiamato dalla moglie. Accorsi dove abitava, in via Savoia, e con Gabrio Lombardi lo ricomponemmo. Non ho fatto per mio padre quello che feci per Del Noce”.
Più volte hai parlato degli uomini di Dio, uomini suppongo dotati di una spiritualità che va oltre la religione. Ti senti anche tu un uomo di Dio?
“Non lo so, non credo. È una definizione che richiede una forza interiore troppo audace. Così era Giorgio La Pira che ho conosciuto nel 1947. A Messina passeggiavo con lui e con lui facevo il rosario. Debbo ammettere di non aver avuto probabilmente la misura mentale e spirituale per comprenderlo a fondo. Perché la santità non è solo spettacolarità. Ma un carisma più sobrio e sfuggente, difficile da afferrare. Era un uomo che si annunciava con gesti di rottura. Per certi versi l’attuale papato si può definire lapiriano”.
A chi o a cosa somiglia un uomo di Dio?
“Ha qualcosa dell’opera d’arte. Non si possono sollevare pregiudiziali davanti all’opera d’arte, così come non mi verrebbe di farlo
davanti a Capograssi, a Del Noce e a La Pira. Intendiamoci, parliamo di stili di vita differenti, con una condivisione comune”.
Esattamente cosa?
“La bellezza. Senza il bello scrivere di Roberto Longhi, che poi non era ornamento, non si capirebbe Caravaggio. E anche, per fare un nome che conosco a fondo, Carl Schmitt aveva uno stile letterario intrinseco alla materia che trattava. Non appena ti cali nel suo mondo giuridico e politico avverti la suggestione del suo Melville “.
Sei stato tra i primi a occuparti di Schmitt in Italia.
” Credo di sì. Le sue opere hanno turbato le coscienze di molti. Mi occupai di lui negli anni Sessanta quando cercavo materiali per il mio lavoro sulla democrazia plebiscitaria”.
Fu un critico della democrazia.
“Se si vuol capire cosa sia criticabile, in senso alto e non demagogico, nella democrazia rappresentativa, bisogna affrontare con spregiudicatezza le obiezioni di Schmitt”.
Ma non si può prescindere dal suo legame con il nazismo.
“Certo, anche se il suo concetto del politico è anteriore al nazismo. Nell’epoca in cui lo mette a punto, la lettura di Nietzsche aveva prodotto epigoni di proporzioni gigantesche. Il migliore di questa covata fu Otto Weininger. Poi ci furono Spengler e Schmitt, la cui critica alla democrazia parlamentare era di fatto una critica all’organizzazione del compromesso quotidiano. Per lui non si poteva mettere ai voti l’esistenza di Dio. Non si poteva trovare un compromesso sulla sua esistenza. Ma vedi, non mi sono occupato di Schmitt senza passare prima da Leo Strauss che ebbe una tardiva fortuna da noi, ma che venne sbranato dai nostri giuristi per aver pestato la coda ad Hans Kelsen”.
Cosa vuoi dire?
“Semplicemente che Strauss, diversamente da Max Weber, non ebbe un atteggiamento neutrale rispetto ai valori. In nome della neutralità si è data la stura a tutti i compromessi possibili”.
Hai conosciuto anche Ernst Jünger?
” Lo vidi una sola volta a Palermo. Mi sembrò un uomo gelido. Devo dire che, malgrado un certo stile, non mi ha mai appassionato. Troppi coleotteri nella sua vita. Hai fatto caso alla somiglianza della loro corazza con gli elmetti tedeschi? È stato un buon viaggiatore, capace di andare incontro all’avventura con la disciplina e la curiosità di un colonialista colto dell’Ottocento”.
Tu hai viaggiato?
“Non quanto forse avrei voluto. Ora però mi accingo al mio viaggio verso l’ignoto. Il moto si fa più affrettato quando gli anni si accumulano. E bisogna cominciare a guardare in alto”.
Cosa significa?
” Vico si stupiva che i suoi bestioni alzassero gli occhi al cielo. Non sapevo fino a qualche tempo fa che avesse preso questa immagine da Lucrezio”.
Perché stupirsi?
” Perché si stabilisce un dialogo tra un padre che sta su e i figli che sono giù. Come il bestione anch’io alzo gli occhi verso Dio. Siamo fatti per alzarli. E non per guardare il volo di un moscerino, ma perché hai stretto un patto con qualcuno che ti è superiore. Lo stupore è tutto qui: provare a vivere secondo lo spirito quel che resta del tuo tempo”.
Fonte: La Repubblica