di Enrico Cisnetto
O è troppo, o è troppo poco. Di fronte al decreto del presidente del Consiglio per il contrasto e il contenimento del diffondersi del virus Covid-19 da un lato ho assunto – come cittadino, padre di famiglia e imprenditore – un atteggiamento di doveroso rispetto delle misure adottate, ma dall’altro non esito a definirmi contrario e preoccupato.
Come ho già spiegato la settimana scorsa in questa sede, non possiedo le competenze medico-scientifiche per giudicare sotto quel profilo la forza e la pericolosità del coronavirus, né le modalità con cui fronteggiarlo e i tempi entro i quali si può ragionevolmente sperare di renderlo innocuo. Ma penso di sapere, perché me lo hanno insegnato padri della Repubblica come Ugo La Malfa, come in certe circostanze deve muoversi la politica, e in particolare chi porta la croce del guidare il Governo. Cioè avendo il coraggio di scelte difficili – se Churchill non lo avesse avuto, pur sapendo quante vittime la sua ostinazione militare avrebbe fatto, Hitler avrebbe vinto la guerra – e rifuggendo dalla tentazione di optare per ciò che più scarica le responsabilità.
E per questo mi sento di affermare, senza alcuna iattanza né desiderio di polemica, che ciò a cui abbiamo assistito è esattamente il contrario di come bisognerebbe fare. Occorreva, cioè, ascoltare subito gli esperti – possibilmente delle varie correnti di pensiero, che non sono poche – per poi assumere, in sede politica, le necessarie deliberazioni, avendo a mente tre priorità assolute: giudicare le diverse opzioni a disposizione anche e soprattutto sotto il profilo delle conseguenze che esse generano; comunicare con perizia e prudenza, per evitare che i cittadini possano sia sottovalutare il pericolo, comportandosi irresponsabilmente, sia sovrastimarlo diventando preda di paure e isterismi; agire con autorevolezza e fermezza, evitando incertezze e soprattutto atteggiamenti ondivaghi, in modo da trasmettere fiducia e tranquillità.
Credo che sia chiaro a molti, se non a tutti, che le cose non sono andate affatto così. E che anche l’ultimo decreto sia espressione di questo alto tasso di confusione ed erraticità, a sua volta figlio della mancanza di consapevolezza di quali siano le prerogative e i doveri della politica, tanto più in circostanze che hanno dell’eccezionale.
Dicevo, in esordio, che le misure fin qui adottate, e le ultime in particolare, o sono eccessive o sono insufficienti. Infatti, di fronte al Governo e al Parlamento c’erano (e ci sono) due scelte radicalmente alternative: prendere per buone le ipotesi più estreme formulate dalla comunità scientifica italiana e internazionale, di fronte alle quali le misure assunte paiono pannicelli caldi, oppure optare per le valutazioni e le stime più prudenziali, ed allora ecco che le varie restrizioni, specie se sommate ai messaggi catastrofici che volenti o nolenti sono stati lanciati, paiono fuori luogo e dannose. Vediamo in dettaglio.
Da Harvard l’autorevole professore di epidemiologia Mark Lipsic sostiene che l’attuale epidemia di coronavirus sia già fuori controllo, nonostante l’isolamento di 100 milioni di cinesi nelle loro case, e siccome la strategia di quarantena è imperfetta, si prevede che la malattia, essendo completamente asintomatica, si diffonderà facilmente tanto che entro un anno il 40-70% della popolazione mondiale sarà infettata, e unendosi ai virus dell’influenza stagionale, ucciderà tra 90 e 160 milioni di persone (il calcolo è mio, applicando il tasso del 3% di mortalità fin qui evidenziato dalla malattia), considerato che per il vaccino occorreranno circa 18 mesi. Un po’ meno spaventosa, ma in fondo non dissimile, la valutazione fatta dall’Australian National University, secondo cui il bilancio globale del coronavirus potrebbe raggiungere i 15 milioni di morti nello scenario migliore (pandemia di fascia bassa), e i 68 milioni in quello peggiore.
In Italia fa eco a questi catastrofici studi un raffinato intellettuale come il professor Luca Ricolfi. Sociologo di vaglia, docente di Analisi dei dati all’Università di Torino, Ricolfi è molto stimato, ed io sono uno dei suoi tanti estimatori.
Per questo sono sobbalzato sulla sedia leggendo una sua intervista nella quale spiegava il risultato di simulazioni da lui fatte per la Fondazione Hume al solo caso Italia: se gli infetti raggiungessero gli 8 milioni come accade per una normale influenza applicando un moltiplicatore del contagio di 2-2,5 individui ogni contagiato, e se si considera un tasso di mortalità del 2-3%, il numero di deceduti sarebbe compreso fra 160 e 240 mila. Numero che salirebbe anche a 300 mila e oltre se dovesse essere corretto un tasso doppio (4 o 5) contagiati per infettato.
Stiamo parlando di una mortalità pari allo 0,5% del totale della popolazione, che in Italia significa appunto 300 mila individui e nel mondo poco meno di 40 milioni. Numeri che, come sostiene Ricolfi, avrebbero dovuto indurre Conte – che il professore torinese definisce “irresponsabile” per aver esortato a fare meno tamponi quando invece è solo il più alto numero possibile di diagnosticati mediante una massiccia campagna di verifiche a darci la possibilità di rallentare la progressione del contagio – ad imboccare una strada ben più drastica di quella intrapresa. Quale?
Fermarsi un paio di mesi per occuparci solo di salvare la pelle, dice Ricolfi, secondo cui “il ritorno alla normalità non possiamo ancora assolutamente permettercelo”. Insomma, il governo ha fatto troppo poco e troppo tardi.
Sul fronte opposto non ci sono stime precise, ma ci si limita ad osservare che mediamente ogni anno gli italiani che muoiono di polmonite e sue complicazioni sono circa 11 mila (30 al giorno) e che non sono suffragate da nessuna informazione oggi in nostro possesso le ipotesi che tendono ad aumentare o ancor peggio a moltiplicare questo numero. Io propendo per questa seconda ipotesi, anche se mi rendo conto che si tratta di una valutazione istintiva che forse incorpora l’umana speranza della sopravvivenza.
Ma se fosse questa la sponda valutativa giusta, sarebbe del tutto evidente che i provvedimenti presi dal governo andrebbero giudicati, come io faccio, fuori misura per eccesso. Essi, infatti, non tengono conto, o comunque non lo fanno a sufficienza, dei danni collaterali – prevalentemente di natura economica, ma non solo – che finiranno per generare. Anzi, che hanno già generato. Ormai le stime più consolidate, e maggiormente prudenziali, parlano per l’Italia di una perdita di un punto di pil rispetto alle previsioni ante-coronavirus.
Per esempio la società di rating Moody’s ha corretto la previsione per il 2020 da +0,5% a -0,5%, certificando che saremo per la terza volta negli ultimi dodici anni in recessione. Ma ci sono studi che arrivano a ipotizzare una caduta del prodotto interno lordo anche di tre punti percentuali (vi posso assicurare che anche a Palazzo Chigi hanno questi calcoli). E sapete sulla base di cosa si fanno queste stime?
Non sul tasso di diffusione della malattia, ma sul livello di restrizione delle misure prese e delle conseguenze che esse provocano – tanto maggiori sono, tanto peggio è per l’economia – e sulla percezione che i mercati hanno del sistema paese. Ora questo secondo generatore di guai è stato sciaguratamente attivato fin dal primo giorno di questa emergenza, con una comunicazione che non esito a definire criminale che ha indotto gli acquirenti internazionali dei nostri prodotti e servizi a bloccare gli ordini o addirittura a disdire quelli già fatti.
E guardate che se a prima vista i problemi sono sul fronte interno – piccolo commercio, turismo, industria del tempo libero – in realtà quelli maggiori sono per l’industria manifatturiera del triangolo Lombardia-Veneto-Emilia Romagna, cioè della parte più sana del nostro sistema produttivo, quella che esporta e che in buona misura ha affrontato la grande transizione tecnologica in corso.
Ecco perché è corretta la valutazione di quegli economisti che sostengono che è profondamente diversa la crisi recessiva che si sta aprendo di fronte a noi rispetto a quella del 2008-2009: allora, a parte l’innesco di natura finanziaria, fu il crollo della domanda a determinare la caduta del pil e il restringimento della capacità produttiva (-25%), questa volta la crisi arriva dal lato dell’offerta, per i motivi che vi ho appena detto.
E considerato che, anche per effetto della recessione del 2011, non abbiamo più recuperato la dimensione del pil e della produzione del 2007, aggiungere oggi un’altra recessione di alta intensità potrebbe rivelarsi esiziale. Tanto più che la nostra economia era già indirizzata verso la recessione, dopo una lunga fase di stagnazione, a prescindere dal coronavirus, per problemi strutturali del tutto endogeni.
Ecco perché ritengo che abbiamo sbagliato, e di grosso, l’approccio: perché se risultassero reali le cifre di Ricolfi – Dio non voglia – allora chiudere scuole e università per pochi giorni, cancellare manifestazioni pubbliche, dispensare obblighi surreali di distanza e di rapporto tra le persone inducendo a un po’ di telelavoro, sarebbero un fallace palliativo rispetto alle misura draconiane necessarie; mentre, se dovessero rivelarsi giuste le ipotesi pur gravi ma decisamente più contenute, saremmo di fronte ad esagerazioni e a meccanismi di comunicazione dalle conseguenze letali per gli assetti socio-economici del nostro Paese.
In entrambi i casi, un disastro. Di cui questa classe dirigente (stavo per aggettivarla, poi ho desistito perché qualunque aggettivo sarebbe riduttivo) porterà la responsabilità e pagherà le conseguenze. Solo che a pagare il prezzo saremo anche tutti noi.