di Giordano Felici
(WSC) Roma – È un fatto innegabile che crisi sanitaria che si sta esplicitando in questi mesi sta avendo delle enormi ricadute sul piano economico.
Stime eseguite dal capoeconomista della banca Unicredit contenute nel report domenicale prevedono una caduta del PIL italiano stimata attorno al 15%, in linea con quello dell’area Euro (13%) e migliore – seppur di poco – rispetto a quello della Grecia (18%); aldilà delle statistiche (che valgono nella misura in cui le condizioni non cambino, il che nel mondo reale avviene poche volte) è abbastanza intuitivo che in un contesto in cui la stragrande maggioranza delle supply-chains è stata chiusa a causa dell’emergenza sanitaria si prospettano dei tempi non troppo rosei dal punto di vista economico.
Ci troviamo, per dirla in maniera molto brutale, nella fase discendente del ciclo del credito (ovvero nella fase in cui vengono a galla tutti gli errori accumulatisi nella precedente fase di boom) esplicitata dal “cigno nero” del coronavirus); una fase – questa – in cui aumentano i prezzi dei beni di consumo, diminuiscono i prezzi dei beni di investimento ed in cui viene quindi fuori che tutti quegli investimenti prima profittevoli ora non lo sono più.
Nella fattispecie, nel futuro assisteremo a dei prezzi dei beni di prima necessità (cibo e medicine su tutti) che tenderanno a salire in primo luogo a causa del fatto che le catene logistiche che prima rifornivano i punti vendita ora sono o ferme o non possono circolare (in molti paesi europei sono stati reintrodotti controlli alle frontiere) e che le strutture che li producono (tanto aziende agricole quanto aziende legate ad esse) producono a regime ridotto e – soprattutto – in ragione del fatto che la domanda per tali beni è rimasta invariata: in sintesi, abbiamo un problema di scarsità relativa dell’offerta rispetto alla domanda.
Vi è poi un’altra questione che merita attenzione, concernente questa volta il settore dei servizi, ed in particolare a quello del turismo. Il coronavirus, determinando la quarantena, ha enormemente ridotto lo spostamento di persone per motivi diversi da quelli lavorativi non solo a livello locale ma anche globale (pensiamo, ad esempio, ai voli internazionali cancellati) il che colpisce in maniera pesante tutta quella parte di terziario legata al turismo, non solo in termini di strutture ricettive (alberghi, spiagge o B&B) ma anche e soprattutto in riferimento alla filiera produttiva ad esse legata (pensiamo ai ristoranti, alle lavanderie industriali e simili).
Nei settori diversi da quelli dei beni di consumo, ovvero negli stadi che utilizzano più capitale rispetto al lavoro, stiamo quindi sperimentando uno shock dal lato della domanda e dell’offerta: in breve, siamo davanti a uno shock simmetrico.
Come ebbi modo di scrivere qualche articolo fa, sono molti i modi sbagliati con cui le crisi si possono affrontare ma giustamente – coloro che mi sono vicini e che hanno avuto modo di leggere quanto da me scritto – mi hanno fatto notare che il dovere di un buon (aspirante) economista non deve essere solo quello di offrire delle critiche allo status quo ma è anche e soprattutto quello di proporre soluzione a problemi concreti.
Quindi bisogna individuare quali siano i modi corretti che ci consentono di uscire da una crisi che – come quella del 2008 e qualsiasi altra dall’abolizione dell’oro come moneta avvenuta nel 1971 – trova nell’intervento governativo se non la causa principale almeno una concausa (come in questo caso).
Scopo del seguente articolo sarà quello di fornire, attraverso il riferimento ad un caso della storia economica tanto importante quanto poco pubblicizzato e studiato dall’economia mainstream, un esempio di politiche economiche che servono ad illustrare quali siano le politiche da adottare nel contesto di una crisi economica.
Per fare ciò prenderemo ad esempio la situazione venutasi a creare negli Stati Uniti del primo dopoguerra e vedremo come il presidente di allora, Warren Harding, comprese le corrette politiche da adottare in un contesto di crisi economica.
Il contesto storico-economico
Per poter parlare in maniera corretta e contestualizzata di questo periodo della storia economica occorre innanzitutto fornire un inquadramento di carattere storico che individui il framework all’interno del quale questi eventi hanno avuto luogo. Ci troviamo, come avrete potuto ben capire, alla fine del primo conflitto mondiale, un conflitto che – per la prima volta su una scala così ampia – ha coinvolto anche molti aspetti della vita interna dei paesi tra cui anche (e, aggiungerei, soprattutto) l’economia. La guerra richiede risorse ingenti: materie prime, macchine, fabbriche, risorse finanziarie e uomini o – in generale – beni capitali che costituiscono concretamente il capitale di un dato individuo e per estensione di una data società. La guerra richiede che tali risorse debbano essere impiegate per usi diversi da quelli che sarebbero stati altrimenti perseguiti dai privati, pertanto la guerra comporta sempre ed invariabilmente un consumo di quello che rappresenta il capitale: a scanso di equivoci – quindi – la guerra distrugge e non “crea” alcuna ricchezza. Ciò rimane vero – ed anzi si rafforza – pensando che il corollario economico di una situazione di belligeranza è la pianificazione statale: in tempi di pace, le scorte di materiale bellico accumulate sono insufficienti e dunque si rende necessario porre sotto controllo statale le materie prime, reimpostare l’intero apparato di fabbriche e riorientare l’agricoltura in funzione del soddisfacimento delle preminenti esigenze delle forze armate. Inoltre, in un tale contesto, le entrate fiscali non sono quasi mai sufficienti a coprire l’intera spesa dello Stato in armamenti; per cui si rende necessaria la spesa in disavanzo allo scopo di finanziare lo sforzo bellico, cosa – questa – che contribuisce al consumo di capitale di cui sopra. A causa di ciò, ovvero di una sempre maggiore crescita dei bilanci dei governi, la guerra solitamente richiede l’allentamento – quand’anche la fine – di un denaro sano ed onesto: è così che già dal 1914 la guerra pose fine al gold standard, quel sistema che dal lontano 1750 garantì al mondo occidentale la stabilità monetaria e un livello di vita enormemente maggiore perfino di quello di cui godiamo noi. Senza gold standard, il governo può chiedere alla banca centrale di monetizzare il suo debito – in questo caso, debito di guerra – stampando moneta fiat ad libitum e di ottenere prestiti dalle banche commerciali; ed è esattamente in ragione di ciò si sperimenta una intensa dinamica inflattiva, soprattutto in quei Paesi maggiormente coinvolti e ancora di più in quelli che ne escono da sconfitti, visto che si consuma capitale (diminuisce l’offerta di beni e servizi) e aumenta la domanda degli stessi (spesa bellica). La fine del sistema aureo, la pianificazione economica e la spesa pubblica influirono (distorcendola) sulla dinamica dei prezzi, dei salari e della produzione; consumando capitale e dunque mettendo al centro del dibattito economico l’inflazione ed il ruolo dello Stato nell’economia. Questo, in estrema sintesi, è il contesto economico in cui navigava l’Europa del Primo Dopoguerra.
La recessione del ’20-‘21: la teoria austriaca del ciclo economico ed i fatti
La situazione negli Stati Uniti non era migliore. Sebbene non avessero subito degli ingenti danni in termini di perdite di vite umane (potenziale forza-lavoro) ed in termini di indebitamento, dovettero comunque affrontare degli ingenti problemi di riconversione industriale (dalle produzioni belliche a quelli civili) dovuti all’inflazione: anche il governo statunitense, abbandonando il gold standard, aveva stampato cartamoneta in eccesso ai beni esistenti e questa tendenza fu conservata anche nei primi anni di pace facendo in tal modo aumentare i prezzi; tendenza – questa – rafforzata dal fatto che nell’Europa vi era un diffuso protezionismo commerciale che non permetteva alle merci di entrare nelle nazioni e di ricostituire il capitale consumatosi nel conflitto. In questo contesto, fatto di difficoltà di riconversione industriale e di inflazione, si aggiungeva il problema dei disoccupati, dovuta alla scarsa richiesta di lavoro da parte di quelle industrie impegnate in produzione bellica. Per capire come si è giunti a questi dati occorre dare dei lineamenti di una teoria del ciclo economico, Come esposto in altra sede, le crisi (con le relative recessioni) sono causate da un cambiamento dei prezzi relativi indotto dall’inflazione: l’inflazione produce una riduzione del tasso di interesse e aumento in progressione dei prezzi dei beni di investimento. Un aumento del prezzo di questi beni induce gli imprenditori ad investire in questi beni per cui – tuttavia – non esiste un risparmio reale per sostenere l’investimento in essi: difatti, una diminuzione del tasso di interesse aumenta anche l’incentivo ai consumi i quali tolgono risorse agli investimenti. Dato che l’offerta aggregata reale di risparmio è ridotta, c’è inflazione perché le industrie dei beni strumentali non possono soddisfare le nuove richieste reali di beni strumentali da parte degli imprenditori aumentando la capacità. Essi possono tentare, ma ciò comporterebbe una richiesta di capitale e lavoro più elevata nel mercato dei fattori che a sua volta è ridotto a causa della maggiore richiesta degli stessi nelle industrie di beni di consumo, aumentando così i prezzi dei fattori e quindi il prezzo dei beni in generale. Mano a mano che questo processo continua, nelle fasi intermedie si produce una situazione simile a quella nelle industrie di beni di consumo: i loro profitti saliranno (in quanto i prezzi dei loro prodotti saliranno ed i salari reali scenderanno rispetto ai al prodotto diretto di queste industrie). Perché ciò continui è necessario che le imprese continuino ad operare in un regime di “piena occupazione”, ossia quando le imprese stanno operando alla piena capacità produttiva. Ma – e questo è il punto – la “piena occupazione” per durare non richiede solo una inflazione continuata ma anche crescente. Perché, come visto, ha un effetto benefico immediato solo fino a quando la sua grandezza non può essere correttamente prevista. Ma quando continua per un certo tempo e ci si aspetti che persista, se i prezzi si sono alzati per un certo periodo di un certo tasso annuo, diventa prassi comune aspettarsi che lo stesso avvenga per il futuro. Infatti, l’aspettativa che l’inflazione aumenti spesso porta ad un aumento dell’inflazione. In primo luogo perché se i creditori si aspettano un aumento di un certo tasso di inflazione dei prezzi in un anno, chiederanno che tale rialzo sia aggiunto al tasso di interesse pagato loro affinché conservino il potere d’acquisto del loro investimento; inoltre tutte le società saranno forzate ad offrire un tasso lordo di rendimento corrispondentemente aumentato per attrarre nuovi investimenti, perfino patrimoni netti. Inoltre, e c’è un aumento programmato del prezzo, i sindacati aggiungeranno il totale atteso di questo rialzo a qualsiasi richiesta salariale che avrebbero comunque sostenuto: i lavoratori e i datori di lavoro di solito non sono concordi nel definire il valore dei salari reali. Invece, i lavoratori cercano di proteggere i loro salari reali dal calo in risposta all’inflazione (o per raggiungere un salario reale obiettivo) spingendo per salari monetari (nominali) più elevati. Pertanto, se si aspettano un’inflazione dei prezzi – o hanno sperimentato l’inflazione dei prezzi in passato – spingono per salari nominali più elevati. Se hanno successo, ciò aumenta i costi che i loro datori di lavoro devono far fronte. Per proteggere il valore reale dei loro profitti (o per raggiungere un tasso di profitto o un tasso di rendimento obiettivo sull’investimento), i datori di lavoro passano i costi più elevati ai consumatori sotto forma di prezzi più elevati. Ciò incoraggia i lavoratori a spingere per salari nominali più elevati perché questi aumenti dei prezzi aumentano il loro costo della vita; così il ciclo inflazionistico si rafforza. Dunque, nelle imprese delle fasi intermedie si verifica un caso di inflazione da costi, consistente in una crescita dei prezzi causata da una crescita dei costi dei fattori di produzione (materie prime, lavoro, ecc.). Quindi aumentano i costi di produzione; ancora, gli speculatori e compratori ordinari proveranno ad anticipare qualunque aumento programmato del prezzo — e di conseguenza accelereranno inevitabilmente l’andamento verso la percentuale pianificata. Inoltre, è verosimilmente possibile immaginarsi che un ulteriore elemento destabilizzante derivi dal fatto che una parte di questa improvvisa domanda sia generata dalla spesa pubblica. Alla fine, l’inflazione integrata comporta un circolo vizioso di elementi soggettivi e oggettivi, in modo che l’inflazione incoraggi il persistere dell’inflazione. Fino a quando l’inflazione farà aumentare i prezzi più velocemente dei costi, stimolerà la crescita dell’economia, nuove imprese ed occupazione. Questo “tiro alla fune” inflazionistico non può tuttavia durare a lungo: una delle due parti (imprenditori che hanno investito a lungo e consumatori che vogliono consumare ora) deve cedere e quando la corda si spezza accade il botto; alla fine, i desideri dei consumatori (che con le loro azioni hanno dimostrato di voler consumare ora i beni che gli imprenditori sono in grado di fornirgli solo poi) prevalgono sui calcoli degli imprenditori falsati dall’inflazione e tutto questo si traduce in un eccesso di beni capitali rispetto ai beni di consumo (perché delle risorse sono state sottratte alla loro produzione – e quindi i beni di consumo sono scarsi rispetto ai beni di investimento – e perché è aumentata la quantità di moneta in circolazione), le banche centrali devono restringere l’offerta di moneta per evitare il completo collasso del sistema monetario alzando i tassi di interesse e gli imprenditori scoprono ora che il valore dei beni capitali precedentemente acquistati è sceso. La contrazione dell’offerta di moneta ha fatto sì che le attività avviate nella fase di boom apparissero meno redditizie, in funzione del fatto che a) aumenta il tasso di interesse sui prestiti e questo rende costoso continuare gli investimenti avviati nella fase di espansione, e che a livello contabile i costi storici dei beni capitali acquistati in questa fase sono stati contabilizzati con una unità monetaria il cui potere d’acquisto era minore mentre le entrate sono state contabilizzate con una unità monetaria con un potere d’acquisto più alto. Questa differenza contabile (negativa) ha mostrato loro che hanno giudicato profittevole ex ante non lo è ex post; è la crisi. A questa fase segue la depressione. La depressione è il periodo doloroso, ma necessario, in cui la struttura dei prezzi relativi si riaggiusta a livelli economicamente sostenibili. In questa fase si riducono i prezzi dei beni capitali che in precedenza erano aumentati e i prezzi dei fattori impiegati nella produzione di questi beni (tra cui i salari). Nel suo libro “La Grande depressione”, l’economista statunitense di scuola Austriaca Murray Rothbard scrive:
“[…]La deflazione, però, si manifesta quasi sempre. Anzitutto, l’inflazione ha luogo come espansione del credito bancario; ebbene, le difficoltà finanziarie ed i fallimenti dei debitori fanno sì che le banche si contengano e contraggano il credito. In regime di gold standard, se le banche hanno posto fine all’inflazione a causa del drenaggio dell’oro verso paesi stranieri, esse avranno una ragione ulteriore per contrarre il credito. La minaccia di questo drenaggio le costringe infatti a contrarre i prestiti. Inoltre, l’emergere dei fallimenti imprenditoriali può far aumentare i problemi delle banche. E queste, essendo intrinsecamente in bancarotta, non possono permettersi di affrontare altri problemi. Di conseguenza, l’offerta di moneta si contrarrà in ragione della corsa agli sportelli e in ragione del fatto che le banche restringeranno le loro esposizioni per timore della corsa ai rimborsi.
Un’altra caratteristica secondaria che spesso si accompagna alle depressioni è l’incremento della domanda di moneta. Questa ‘lotta per la liquidità’ è il risultato di diversi fattori: (1) gli attori economici si attendono che i prezzi cadano, a causa della depressione e della deflazione, tengono così più moneta e consumano di meno proprio in attesa di tale caduta; (2) i debitori cercano di pagare i loro debiti, che ora vengono messi a rientro dalle banche e dagli altri creditori, liquidando altri attivi in cambio di moneta; (3) l’emergere di perdite imprenditoriali e di fallimenti rende gli imprenditori cauti riguardo nuovi investimenti, fino a che il processo di liquidazione non si sia concluso. Con la caduta dell’offerta e l’aumento della domanda di moneta, la caduta generale dei prezzi è una conseguenza che segna la maggior parte delle depressioni, anche se bisogna segnalare che essa è causata dalle caratteristiche secondarie della depressione piuttosto che da quelle ad essa propriamente inerenti. Quasi tutti gli economisti, pure quelli che ritengono che il processo di aggiustamento tipico della depressione debba risolversi senza ostacoli, hanno una visione molto pessimistica delle caratteristiche secondarie della deflazione e della caduta dei prezzi; e sostengono che ciò aggrava inutilmente l’intensità della depressione. Tale visione non è tuttavia corretta. Questi processi non solo non aggravano la depressione, ma al contrario procurano benefici ed effetti positivi. […] Né l’aumento del tesoreggiamento né la caduta dei prezzi interferiscono minimamente con l’aggiustamento primario che avviene durante la depressione. La caratteristica dell’aggiustamento primario risiede nel fatto che i prezzi dei fattori produttivi cadono più rapidamente dei prezzi dei beni di consumo (o, più precisamente, che i prezzi dei beni di ordine superiore cadono più rapidamente dei prezzi dei beni di ordine inferiore); se tutti i prezzi cadono in una certa misura, ciò non interferisce con l’aggiustamento primario. È poi un luogo comune, tra profani come tra economisti, che la caduta dei prezzi abbia degli effetti depressivi sull’economia. Ciò non è necessariamente vero […] Se i tassi salariali cadono più velocemente dei prezzi, ciò stimola l’occupazione e l’attività economica […]. Una caduta dei prezzi induce a maggiori risparmi e minori consumi perché alimenta un’illusione contabile. La contabilità aziendale registra il valore delle attività al loro costo storico. È noto che l’aumento generale dei prezzi distorce la registrazione contabile: ciò che appare come un abbondante profitto può risultare appena sufficiente a rimpiazzare gli attivi rivalutati a prezzi più alti. Pertanto, durante i periodi di inflazione, i profitti delle imprese sono largamente sopravvalutati, mentre il consumo è superiore a quel che sarebbe stato, se l’illusione contabile non ci fosse stata; è probabile che il capitale venga consumato […]. In tempo di deflazione, l’illusione contabile è rovesciata: ciò che appare una perdita o un consumo di capitale può in realtà significare profitti per le imprese, poiché ora costa molto meno rimpiazzare le attività. Questa sopravvalutazione delle perdite restringe però il consumo e incentiva il risparmio […]”1.
In sintesi, se nella fase inflattiva la struttura produttiva, distorta dalla manomissione del credito bancario, non serve più i consumatori nel modo adeguato; nella fase “deflattiva” la depressione riadegua la struttura produttiva ai desideri dei consumatori. Per tale ragione, la politica consigliata per affrontare tale fase viene riassunta nell’espressione “Laissez-faire” ovvero non interferire con il processo di riaggiustamento del libero mercato. Come scrive Rothbard:
“Il più importante criterio per una sana politica economica, durante una depressione, è quello di astenersi dall’interferire con il processo di aggiustamento. Cosa potrebbe fare di più concretamente un Governo per favorire l’aggiustamento? Alcuni economisti hanno avanzato la proposta di un decreto governativo per tagliare i salari in modo da incentivare l’occupazione: per esempio, una riduzione del 10% uguale per tutti. Ma un aggiustamento che si ha in un libero mercato è proprio l’opposto di una politica ‘uguale per tutti’. Non tutti i salari debbono essere ridotti; il grado di aggiustamento richiesto da prezzi e salari differisce caso per caso e può essere determinato solo nel processo di un mercato libero e privo di interferenze. L’intervento del Governo può solo distorcere ulteriormente il mercato. Vi è tuttavia una cosa che il potere pubblico può fare: ridurre drasticamente il proprio ruolo nell’economia, tagliando le spese e le imposte, in particolare quelle che ostacolano il risparmio e l’investimento. La diminuzione dell’imposizione fiscale e della spesa pubblica condurrà automaticamente a uno spostamento del rapporto sociale tra risparmi-investimenti e consumo in favore dei primi, riducendo quindi di gran lunga il tempo richiesto per tornare ad un’economia prospera. La diminuzione delle imposte che gravano pesantemente sul risparmio e sugli investimenti ridurrà ulteriormente il tasso sociale di preferenza temporale. Inoltre, la depressione è un periodo faticoso per l’economia, Ogni riduzione delle imposte o di qualunque interferenza che ostacola il libero mercato stimolerà l’attività economica; viceversa, ogni incremento delle imposte o di altri interventi deprimerà ulteriormente l’economia. In breve, durante una depressione l’opportuna politica governativa è un rigoroso laissez-faire, accompagnato da una drastica riduzione del bilancio e, magari, da un sostegno alla contrazione del credito”2.
Contestualizzando questa teoria, magistralmente elaborata dal professor Mises, perfezionata dal suo allievo Friedrich von Hayek e sul lavoro di ricerca empirica condotto da Murray Rothbard, alla situazione economica del primo dopoguerra occorre dare alcuni dati. In questo contesto, si sviluppò tra il 1920 ed il 1921 una recessione esattamente due anni dopo la prima guerra mondiale. In termini di tempistiche questa recessione durò dal gennaio 1920 al luglio 1921, cioè 18 mesi, secondo il National Bureau of Economic Research3. Questa recessione fu più lunga della maggior parte delle recessioni del dopoguerra, ma fu più breve delle recessioni del 1910-12 e 1913-1914 (rispettivamente 24 e 23 mesi); e decisamente più breve della Grande Depressione (132 mesi). Le stime del calo del prodotto nazionale lordo variano. Il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti stima che il PNL sia diminuito del 6,9%, Nathan Balke e Robert J. Gordon stimano un calo del 3,5%4 e Christina Romer stima un calo del 2,4%. Altra caratteristica importante di questa recessione è stato l’importante calo dei prezzi, il più grande calo percentuale di un anno in circa 140 anni di dati raccolti. Il Dipartimento del Commercio stima un calo del 18%, Balke e Gordon stimano il 13% di deflazione, e Romer stima la deflazione del 14,8%. I prezzi all’ingrosso sono scesi del 36,8%, il calo più importante dalla guerra d’indipendenza americana. Quale fu la risposta del governo a questi dati? Esattamente nulla, proprio in accordo con quanto sostenuto dagli Austriaci. Anzi, il governo federale degli Stati Uniti, sotto la guida del presidente Warren Harding, seguì quasi alla lettera le indicazioni proposte dagli Austriaci.
La figura qua sopra illustra la serie storica della spesa pubblica statunitense in rapporto percentuale al Prodotto Interno Lordo. Come possiamo notare, negli anni 1920-1921, dopo un picco di spesa raggiunto nel 1918 come conseguenza delle spese belliche, negli anni corrispondenti alla crisi del 1920-1921 (sotto la presidenza Harding) la spesa pubblica statunitense si è ridotta di 15 punti percentuali, in linea con le politiche economiche raccomandate dagli Austriaci, mentre le tasse sono state tagliate di 4 punti percentuali: una politica fiscale che – nel giro di un anno – ha consentito di ristabilire un bilancio in pareggio e la ripresa economica. Dal lato della politica monetaria, la storia non cambia.
Proprio come illustrato dalla teoria, nel punto di massimo di una depressione (in questo caso il settembre del 1920 (in cui la base monetaria raggiunge i 6312 miliardi di dollari) mentre con la politica della FED (che in quel caso ebbe la lungimiranza di non aver paura della deflazione) la base monetaria (M0) e l’offerta di moneta (M) vediamo che da una consistente espansione (in termini percentuali) avutasi tra il 1918 ed il 1919, si è passati ad una contrazione di entrambi gli aggregati monetari esattamente nel periodo della depressione, in accordo con quanto prescritto dalla teoria della scuola Austriaca. Gli effetti di queste politiche macroeconomiche, che oggi verrebbero etichettate come “reazionarie” o “insensate” dagli economisti keynesiani che fanno capo ai consigli economici dei governi e delle banche centrali di tutto il mondo, sono stati impressionanti: la disoccupazione passò dal 5,2% all’11,7% come conseguenza della liquidazione degli errori negli investimenti tra il 1920 ed il 1921, ma grazie alle anzidette politiche macroeconomiche nel giro di pochi mesi la disoccupazione scese dall’11,7% del 1921 ad un sicuramente più accettabile 6,7% del 1922, finendo per essere nel 1924 (ossia solo quattro anni dopo dall’inizio della crisi) pari al 2,4%.
Tanto per dare un’idea di come tali politiche siano effettivamente migliori delle politiche di spesa, tasse e debito tanto pubblicizzate dai keynesiani, possiamo dare qualche dato relativamente alla grande depressione del 1929-1933 per effettuare una comparazione tanto nelle politiche adottate quanto nei risultati ottenuti5. Il New Deal di F.D. Roosevelt viene presentato, erroneamente, come il paradigma dell’efficacia della strumentazione keynesiana. La Grande Depressione negli Stati Uniti dura dal 1929 al 1939. Il periodo peggiore è 1929-1933: il PIL si riduce di un terzo, il reddito disponibile degli individui crolla del 28%, la produzione industriale della metà, i disoccupati passano da 1,6 a 12,8 milioni (25%), un terzo delle banche (9000) falliscono, il valore delle azioni si riduce dell’80%. Nel 1932 Roosevelt vince le elezioni e a partire dal 1933 viene intrapresa la serie di interventi definita New Deal6. Consiste sostanzialmente nelle seguenti categorie di interventi:
- Aumento della spesa pubblica (fra il 1933 e il 1936 aumenta dell’83%), per la realizzazione di opere pubbliche e per sostenere le burocrazie create a quello scopo; l’agenzia più importante è la Works Progress Administration7. Il numero di lavoratori assunti da queste agenzie nel 1936 è pari a 3,7 milioni. La spesa è coperta per la maggior parte da imposte: tra il 1933 e il 1940 le tasse federali, prevalentemente sui redditi e sulle imprese, triplicano da 1,6 a 5,3 miliardi di dollari. Il resto da disavanzi di bilancio, che rimangono più o meno quelli della precedente amministrazione Hoover; il più ampio è il 4,4% del pil del 1936. Il debito pubblico dunque dal 1933 al 1936 aumenta del 73%.
- Creazione nel 1933 della National Recovery Administration, una burocrazia che svolse un ruolo fortemente dirigista nel settore industriale, con regolazione di prezzi, condizioni di vendita e cartellizzazione dei vari settori (il Brain Trust nominato da Roosevelt fu fortemente influenzato dagli scritti di Giovanni Gentile sullo stato corporativo). La produzione industriale non risalì mai.
- Settore bancario: nella prima fase di emergenza durante la corsa agli sportelli, trasferimenti di denaro alle banche. Successivamente istituzione dell’assicurazione sui depositi nel 1933. Divieto di esportare l’oro, quindi uscita definitiva dal gold standard.
- Creazione della Sicurezza Sociale nel 1935, sostanzialmente un sistema pensionistico a ripartizione.
- In agricoltura, con l’Agricultural Adjustment Act del 1933, per sostenere i prezzi dei prodotti agricoli si fissò l’obiettivo di ridurre la produzione, stabilendo quote per ogni stato. A tal fine inizialmente furono concessi contributi agli agricoltori che riducevano la produzione, successivamente il governo acquistò i prodotti: furono distrutti dieci milioni di acri di raccolti e 6 milioni di animali (bovini, suini e pecore).
- Creazione dell’Agricultural Adjustment Administration, che assunse migliaia di esperti dalle facoltà di agraria e li inviò nei vari stati per aggiornare i metodi di coltivazione, giudicati arretrati.
- Creazione della Resettlement Administration, funzionale alla creazione di colonie agricole con un forte impianto collettivo, sul modello dei kolchoz sovietici. La Corte suprema li dichiarerà incostituzionali.
- Altre misure furono: nel 1938 l’introduzione del salario minimo, la svalutazione del dollaro rispetto all’oro del 21% e la conferma dei dazi doganali stabiliti nel 1930 con lo Smooth-Hawley Tariff Act.
Gli effetti furono che l’economia rimase depressa fino al 1939 (il tasso di disoccupazione in questo anno è identico a quello del 1932), dunque le misure prese non generarono affatto la ripresa, la allontanarono. Si ebbe contrazione dei consumi e degli investimenti. Gli interventi sul fisco erratici e ripetuti scoraggiarono gli investimenti. Il sostegno ai sindacati e agli aumenti dei salari reali mantenne elevata la disoccupazione.
La Tennessee Valley Authority, il cuore del programma di lavori pubblici, non creò sviluppo significativo, tanto che stati come la Georgia e la Carolina del Nord, non toccati dall’intervento, ebbero una crescita maggiore. L’iniziativa antitrust del 1938 contro 150 imprese scoraggiò gli investimenti. Le tariffe doganali estese dal Congresso nel 1930 generarono ritorsioni e contrassero il commercio internazionale.
È un cliché dire che conoscere la storia serva a conoscere e capire gli errori allo scopo di non ripeterli in futuro. In questo caso, invece, direi che possiamo affermare che tanto la Teoria quanto la Prassi (storia) ci insegnano che dalle recessioni se ne esce solo con delle politiche economiche liberiste ed orientate ad un minore intervento del governo nel processo di aggiustamento dei mercati e che – viceversa – un maggior intervento del governo tende a prolungare le crisi e le depressioni.
Impariamo dalla storia, perché chi la ignora, è condannato a ripeterla.
1 M.N. Rothbard; La Grande Depressione; pp.46-50; Collana “Universale”, Rubbettino Editore
2 M.N. Rothbard; Ibidem; pp.54-56
3 https://www.nber.org/cycles/cyclesmain.html
4 Vernon, J. R. (luglio 1991): “The 1920-21 Deflation: The Role of Aggregate Supply”. Economic Inquiry. https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/j.1465-7295.1991.tb00847.x e Christina Duckworth Romer: “World War I and the postwar depression; A reinterpretation based on alternative estimates of GNP”. Journal of Monetary Economics https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/0304393288901717?via%3Dihub
5 Tali dati ed il testo sono stati tratti dal saggio di Piero Vernaglione: Interferenze coercitive. L’intervento dello Stato, in Rothbardiana, http://rothbard.altervista.org/teoria/intervento-stato.doc, 31 luglio 2009, agg. 2016.
6 Tuttavia già il predecessore di Roosevelt, il repubblicano Herbert Hoover, intraprende la strada dell’interventismo. La continuità tra i due è molto maggiore di quanto l’interpretazione dominante abbia evidenziato: «considerare l’uno l’ultimo dei credenti nel laissez-faire e l’altro il suo becchino era mitologia politica». A Mingardi, La verità, vi prego, sul neoliberismo, cit., cap. 1, nota 41.
7 La WPA nel corso della sua permanenza spese 6,2 miliardi di dollari in progetti, tra cui 650.000 miglia di strade, lavori su 124.000 ponti, 125.000 edifici pubblici, più di 8000 parchi e 850 aeroporti. Un altro ente, il Civilian Conservation Corps nel 1933 impiegò 250.000 giovani in opere di riforestazione, parchi nazionali, costruzione di strade e altri progetti simili. Fino al 1940 impiegò complessivamente circa 2,5 milioni di persone. Il programma più importante per lo sviluppo locale è la Tennessee Valley Authority: creata nel 1933, mira allo sviluppo del Tennessee e di rilevanti porzioni di Kentucky, Alabama e Mississippi attraverso investimenti infrastrutturali (dighe idroelettriche, canali navigabili, strade, scuole e sistemi per contenere le inondazioni).
Questo articolo è stato originariamente pubblicato con il titolo “America 1920: lezioni dal passato per la politica economica del presente e del futuro” sul sito di Ludwig von Mises Italia, che ringraziamo.