Se una settimana in politica è un tempo lungo, in politica estera a volte può essere lunghissimo. Ancora giovedì scorso, davanti alla Commissione esteri del Senato, il generale Joseph Dunford, designato a guidare lo Stato maggiore interforze dell’esercito Usa, aveva definito la Russia «un pericolo esistenziale» per gli Stati Uniti, nulla di meno che «allarmante». Poi, nella notte tra lunedì e martedì, a Vienna è stato raggiunto l’accordo sul nucleare iraniano, che sterilizza per quasi 15 anni le capacità atomiche di Teheran e segna un grande successo della diplomazia multipolare.
Il giorno dopo, nell’intervista concessa a Thomas Friedman del New York Times , Barack Obama ha addirittura elogiato Vladimir Putin, per il ruolo positivo svolto nel negoziato che ha portato all’intesa: «La Russia è stata d’aiuto. Onestamente, non ne ero sicuro viste le forti differenze che stiamo avendo sull’Ucraina. Putin è riuscito a tenere separati i due argomenti, in un modo che mi ha sorpreso. Non avremmo avuto successo, senza la volontà di Mosca di stare insieme a noi e agli altri membri del 5+1 nell’insistere per un accordo forte».
Ma non è tutto. Nell’intervista il presidente ha anche ricordato che il leader del Cremlino lo aveva chiamato di recente per discutere della Siria, aggiungendo che si apre la possibilità di una «seria conversazione» sul destino di Bashar Assad. Poche ore dopo, è stato lo stesso Obama a telefonare a Putin, per uno scambio di vedute che secondo la versione del Cremlino «ha sottolineato il ruolo del dialogo russo-americano per garantire sicurezza e stabilità nel mondo».
Naturalmente è presto per dire, se la dinamica positiva innescata dall’intesa di Palazzo Coburg si tradurrà in una vera cooperazione tra Washington e Mosca su altri scenari di crisi, a cominciare da quello siriano, dove «la priorità non è più l’appoggio del Cremlino ad Assad, quanto la sconfitta dell’Isis», come ci spiega Gary Samore, che fino al 2013 ha fatto parte del team Usa ai negoziati nucleari. Non c’è dubbio però che l’accordo viennese mostri in filigrana la sua potenzialità di game changer , di svolta, anche nei rapporti tra Russia e Stati Uniti: «Dove c’è interesse nazionale condiviso — spiega Bill Drozdiak, esperto di affari europei alla Brookings — sia Putin che Obama sanno guardare oltre lo scambio di accuse sull’Ucraina».
Il che non significa che Washington ora possa o voglia all’improvviso accettare passivamente i «fatti compiuti» imposti dal Cremlino in Ucraina, dall’annessione della Crimea alla presenza di truppe ibride nelle regioni russofone ribelli. O ignorare gli atteggiamenti aggressivi della Russia nei confronti dei baltici o di altri Paesi dell’ex Patto di Varsavia. Ma, sia pure in un contesto diverso da quello della Guerra fredda, il governo americano sembra come allora ricordare la lezione che anche nei momenti più difficili, il filo del dialogo con Mosca non va mai reciso e può essere prezioso nella gestione di emergenze e crisi regionali. Al punto da non esitare a sanzionare pubblicamente i dissensi interni. Subito dopo le dichiarazioni di Dunford, infatti, il portavoce del Dipartimento di Stato, Mark Toner, ha detto che John Kerry «non è d’accordo» con la definizione della Russia come «pericolo esistenziale», nonostante le divergenze attuali. Toner ha spiegato che il segretario di Stato considera invece sì esistenziale la minaccia proveniente dalla «rapida crescita di gruppi estremisti come l’Isis». La stessa Casa Bianca ha precisato che i commenti di Dunford «esprimono vedute personali e non riflettono la posizione del team di sicurezza nazionale del presidente».
L’accordo iraniano pone in ogni caso un altro dilemma strategico a Barack Obama. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, è stato velocissimo nel ricordare che nel celebre discorso di Praga, nel 2009, il presidente americano aveva dichiarato che «se il pericolo iraniano venisse eliminato, ci sarebbe una più solida base di sicurezza e l’argomento più forte per costruire una difesa anti-missile in Europa cadrebbe». «Ci aspettiamo una reazione dai colleghi americani su questo tema», ha detto malizioso Lavrov. Certo era il tempo del reset verso Mosca. Al Cremlino sedeva il falso Dmitri, lo zar pro-tempore Medvedev. L’Ucraina non era ancora un Paese dilaniato. E Putin non gonfiava i muscoli. Resta che l’argomento ha una sua fondatezza. Un’altra dimostrazione che le conseguenze dell’intesa di Vienna sono immense e vanno molto al di là della proliferazione nucleare e della stessa regione mediorientale.
di Paolo Valentino
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Corriere della Sera