(WSC) ROMA – Svolta epocale, semplice passo in avanti o furba mossa statunitense. Potenzialmente la riforma sulla tassazione delle multinazionali può essere tutte e tre le cose. Per sapere dove penderà la bilancia bisognerà capire come si passerà dalle parole ai fatti. Certo è che la proposta avanzata dal duo Biden-Yellen sta suscitando ampio dibattito a livello internazionali con sfumature che vanno dall’entusiasmo al disincantato scetticismo. Washington ha bisogno di soldi per finanziare i suoi piani di rilancio dell’economia ma al contempo cerca di tutelare i suoi campioni del web, da Google a Apple, dalle pretese delle agenzie fiscali europee. La proposta di introdurre un’aliquota comune internazionale minima del 21% sui profitti realizzati all’estero da qualsiasi multinazionali potrebbe essere per la Casa Bianca la soluzione in grado di salvare capra e cavoli.
L’idea di un’aliquota minima non è nuova. Anzi, l’Ocse ci lavora da tempo e i negoziati sono andati a rilento a rilento anche a causa della precedente opposizione statunitense e di alcuni paesi europei, come Olanda e Lussemburgo. Se diffusamente condivisa, l’aliquota unica azzererebbe, o quasi, la convenienza per le multinazionali ad operare quello che viene definito profit shifting. Ovvero la pratica si spostare i profitti nei paesi con le aliquote più basse, i cosiddetti paradisi fiscali come isole Cayman o Bermuda dove il prelievo è inesistente o quasi. Un’operazione realizzata per lo più con compravendite dai valori artificiosi tra divisioni di una stessa società domiciliate in stati differenti. Valga ad esempio il caso di Google che detiene le sue licenze sugli algoritmi nella sua filiale alle Bermuda che poi le rivende alle varie Google Italia, Google Francia, Google Australia etc. Grazie a queste pratiche ogni anno le multinazionali riescono a sottrarre alle agenzie fiscali qualcosa come 400 miliardi di dollari (338 miliardi di euro). Per quanto accurate si tratta naturalmente di stime, generalmente conservative, vista la natura del fenomeno.
In sostanza il sistema statunitense dell’aliquota al 21% funzionerebbe in questo modo. Un paese, ad esempio Bermuda (giurisdizione che dipende in ultima analisi da Londra), potrebbe applicare alle società la nuova aliquota oppure continuare a tassare i profitti spostati nell’arcipelago all’ 1 o al 2%. A quel punto però gli Usa (paese di residenza della multinazionale) potrebbero riscuotere il rimanente 19%. L’Unione europea ha accolto con una certa freddezza la proposta. E’ probabile che sul valore finale del prelievo si avvii un serrato negoziato. Gli Usa indicano il 21 ma l’Europa deve tutelare alcuni membri, come l’Irlanda, che applica un prelievo del 12,5%. Segnali concilianti sono però arrivati un po’ a sorpresa dall’Olanda, considerato uno dei paesi europei più aggressivi in fatto di concorrenza fiscale. “Quando gli Stati Uniti avvieranno una proposta e riceveranno il sostegno di grandi paesi come la Germania e la Francia, sarebbe sorprendente se non si raggiungesse un accordo”, ha detto Hans Vijlbrief, viceministro delle finanze nel governo provvisorio olandese, prospettando la disponibilità dei Paesi Bassi ad aderire all’intesa. “La concorrenza fiscale sta diventando qualcosa del passato”, ha aggiunto Vijlbrief. Potrebbe anche essere una mossa tattica , come vedremo la partita non si gioca solo sull’aliquota ma anche su ciò che deve essere sottoposto a tassazione. E proprio su queste “esclusioni” l’Olanda ha costruito la sua offensiva fiscale.
Il punto di vista di Emmanuel Saez – Interpellato da Ilfattoquotidiano.it l’economista dell’università californiana di Berkeley, Emmanuel Saez spiega: “Oggi le società multinazionali possono sfuggire alla tassazione dichiarando i profitti nei paradisi fiscali attraverso quella che definiamo contabilità creativa. L’introduzione di un’imposta minima sui profitti dichiarati dalle multinazionali nei paradisi fiscali chiuderebbe questa grande scappatoia fiscale”. “Da 40 anni le istituzioni ci ripetono che in un mondo globalizzato le multinazionali non si possono tassare – continua Saez – ora gli Stati Uniti stanno invece dicendo: sì, possiamo. Pertanto questa può davvero essere una rivoluzione. Le multinazionali devono già riferire alle autorità fiscali quanti profitti realizzano in ogni paese, quindi il prelievo minimo è tecnicamente attuabile”.
Sinora infatti le grandi aziende internazionali dichiaravano quanto guadagnavano complessivamente ma senza render nota la provenienza dei profitti paese per paese. E’ anche grazie a questi stratagemmi che colossi come Facebook o Netflix riescono a pagare in Italia tasse per pochi milioni o addirittura migliaia di euro. “La sfida principale adesso è politica, avverte Saez. Le multinazionali useranno tutto il loro potere per far fallire la riforma proposta. Ma se gli Stati Uniti avranno successo, è quasi certo che altri grandi paesi seguiranno, poiché tutti trarranno vantaggio dalla repressione dell’elusione fiscale “.
Fonte: Il Fatto Quotidiano