di Norma Rangeri
ROMA – In questi giorni, un anno fa, in piena pandemia, eravamo sull’orlo di una drammatica crisi di governo. Tra qualche settimana, sempre con il virus padrone delle nostre vite, l’occasione dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica potrebbe essere la miccia per innescarne un’altra, altrettanto irresponsabile. Proprio mentre il Paese vive una condizione di estrema difficoltà e quel che scombussola il Palazzo appare assai lontano dalle priorità degli italiani.
L’affanno della società si è aggravato: la smisurata, accresciuta dimensione del lavoro precario, l’abbandono dei giovani e delle donne alla disoccupazione (privati dunque dello stesso diritto di cittadinanza), l’esponenziale crescita della povertà. E nessuna inversione di tendenza come dimostra la Legge di Bilancio (segnata dalla scandalosa riforma dell’Irpef a vantaggio dei redditi medio-alti), votata ieri con il 35esimo voto di fiducia (il record dei record). Tutte ottime ragioni per la protesta di lavoratrici e lavoratori lasciati in mezzo alla strada dallo sblocco dei licenziamenti e dalle delocalizzazioni selvagge. Le lotte per fortuna si sono moltiplicate, culminando nello sciopero generale di Cgil e Uil del 16 dicembre.
Oltretutto il disinteresse e il solco che separa la società dalle istituzioni (alle elezioni amministrative di ottobre più della metà dei votanti delle grandi città è rimasto a casa), è determinato dall’aver ridotto un tema davvero importante, come la figura del nuovo Capo dello Stato, a un balletto politico, a una lotteria di nomi. Uno strumentale e spesso fittizio gioco di Palazzo, con un prevalente interesse partitico quando altri argomenti dovrebbero invece nobilitare un appuntamento di fondamentale rilevanza per il futuro dell’Italia. Questo svilimento del confronto, a ben vedere, è, almeno in parte, prodotto proprio dal personaggio meno sospettabile, Mario Draghi.
L’uomo delle istituzioni, il civil servant nel suo significato più pieno, è diventato, suo malgrado, il macigno che pesa sulle future sorti del Quirinale. Il ruolo di super-presidente del Consiglio, accompagnato dal tappeto rosso nel compito di gestire da palazzo Chigi il super-budget europeo fino al 2023, è poi diventato il motivo più gettonato per traghettarlo al Quirinale con una maggioranza extralarge. Condizionando in modo anomalo le scelte dei partiti, soprattutto dopo lo scivolone di offrirsi, lui, guida del governo in carica, come futuro Capo dello Stato.
A noi del manifesto le risse di bottega, i “dico ma non faccio nomi”, il “calcio-mercato” quirinalizio, le sfacciate avances del politico più unfit e screditato della storia, interessano poco. Anzi nulla. Una elezione che potrebbe appassionare i cittadini – perché il Quirinale è o dovrebbe essere la casa di tutti – non può essere ridotta a rissa mediatica di bassa lega. Vorremmo che il lascito di Mattarella finisse in mani sicure, affidabili, e dunque democratiche, antifasciste, a difesa dei diritti sociali e civili, fortemente ancorate alla nostra Costituzione, nata dalla Resistenza.
Vorremmo che queste mani sicure fossero di una donna (nel nostro Speciale, dedicato al Sesso forte, ce n’era più d’una adatta all’alto compito). Il vero cambiamento (come del resto sta avvenendo in altri paesi) si misura dalla capacità e maturità delle classi dirigenti di segnare, anche simbolicamente, una discontinuità del potere affidando alle donne i ruoli istituzionali e politici di maggior rilievo. Nella storia repubblicana, la parlamentare che ha ottenuto il maggior numero di voti dei grandi elettori fu Nilde Iotti nel 1992 con 256 voti (quando poi, con la tragedia della strage di Capaci, fu eletto Oscar Luigi Scalfaro). A ogni rinnovo della carica ci sono state parlamentari infilate nella girandola del toto-nomi per ingannare il tempo.
Questa elezione prossima ventura replica il vecchio copione e dunque difficilmente la presidenza della repubblica cambierà sesso, rinnovando quel senso di caserma che avvolge l’ex reggia papalina sull’alto colle romano. Salutiamo il 2021 e affrontiamo il 2022 senza che nulla sembri indicare migliori prospettive. Non quelle di un’Europa che ha fallito su clima e migranti. Neppure quelle degli Usa di Biden, possibile anticamera del ritorno del trumpismo, con o senza Trump. Mentre a est dominano la crisi ai confini occidentali della Russia e la cupa egemonia cinese.
Grandi passi indietro anche nel cortile di casa, così sul piano dei diritti sociali, come su quello dei diritti civili (legge Zan docet). In un panorama politico nazionale dove, chi diceva di essere “un patriota”, mentre apriva la crisi della maggioranza di centrosinistra, cioè Renzi, è ancora uno dei guastatori in gioco. I 5Stelle hanno sì cambiato profondamente la propria struttura interna, ma continuano a essere nessuno e centomila. Il campo largo del Pd di Letta a ben vedere coincide in realtà con “il partito di Draghi”. Il piccolo mondo antico della sinistra non dà segnali di riflessione autocritica. E, dulcis in fundo, è probabile che alla fine il prossimo presidente della Repubblica possa uscire dal cilindro delle destre.
L’altro grande appuntamento del prossimo anno sarà ancora, e purtroppo, la Pandemia. Con le sue devastanti conseguenze sanitarie, sociali, economiche (le tre emergenze indicate, nell’ordine, da Mattarella quando conferì l’incarico a Draghi) che da due anni stanno condizionando radicalmente la vita del nostro paese come del resto del mondo. Disuguaglianze sempre più profonde, individualismo e rancore a gonfiare le vele dei no-vax e dell’estrema destra, fino all’assalto fascista alla sede nazionale della Cgil. Non si esce da questo disastro senza un intervento globale con la sospensione dei brevetti, la sola misura in grado di evitare l’arrivo di nuove imprevedibili varianti. Non si può pensare che almeno quattro miliardi di persone restino senza vaccini. La vaccinazione globale deve essere l’impegno vero, lungimirante per il 2022.
Questo articolo, con il titolo “L’anno nuovo che vogliamo”, è stato originariamente pubblicato da Il Manifesto, che ringraziamo.