di Mariavittoria Cantanzariti*
(WSC) ROMA – Dall’inizio della terribile invasione ucraina, la discussione pubblica sul pacifismo è rimasta latente, sostituita dall’idea comune che la pace possa essere adeguatamente preservata attraverso risposte adeguate. L’attenzione si è concentrata soprattutto sul classico e controverso concetto di “guerra giusta”, alla ricerca di una base giuridica che potesse giustificare la scelta europea di inviare equipaggiamenti militari in Ucraina – se fosse o meno l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò richiama alla memoria il noto dibattito scientifico tra Hans Kelsen e Carl Schmitt sull’ammissibilità della guerra unicamente come sanzione legittima, da un lato, e sulla necessità della guerra per far fronte alla contingenza, dall’altro. Tuttavia, nessuna di queste opzioni, certamente non quella schmittiana, ma nemmeno quella kelseniana che sostiene il pacifismo attraverso il diritto, abbraccia l’alternativa più radicale della non violenza. La lettura di Karl Polanyi è interessante a questo proposito perché offre un rifiuto paradigmatico dell’idea di guerra. La dicotomia è radicale, non in termini di “guerra illegittima/guerra giusta”, ma piuttosto in termini di “pacifismo/guerra”.
Nei saggi Le radici del pacifismo (non datato) e Il significato della pace (1938) Polanyi traccia una teoria del pacifismo che si radica teoricamente nel rifiuto morale della guerra.
La possibilità di disuguaglianza tra gli Stati non viene presa in considerazione come opzione politica (contingenza). Al contrario, lo status contingente accettabile degli attori internazionali è la possibilità intrinseca di coesistere, altrimenti – sostiene Polanyi – la civiltà è in pericolo. L’abolizione della guerra è il compito prioritario della società, ma postula un nuovo fondamento della politica: la lotta costante contro l’istituzione della guerra non dipende dalle emozioni umane, ma risponde tragicamente alla necessità di risolvere l’incertezza dei confini territoriali.
La tesi è innovativa perché non significa semplicemente che l’ordine internazionale dovrebbe basarsi sul rifiuto della guerra, ma sul raggiungimento di requisiti istituzionali che rifiutano la necessità della guerra per perseguire determinati obiettivi.
Polanyi mette in guardia sul fatto che sia le forme materiali sia quelle politiche dell’esistenza umana hanno una scala mondiale. La pace può essere raggiunta attraverso due alternative: o un impero mondiale governato dalla conquista e dalla sottomissione, o una lega mondiale governata dalla cooperazione internazionale.
Nel dibattito europeo sarebbe importante ricentrare l’eredità polanyiana al centro della sfida pacifista, in quanto ritrae un’idea utilitaristica di pacifismo per l’ordine internazionale. Contro l’inganno pacifista – che sostiene l’abolizione della guerra soltanto sulla base dell’assunto che la guerra non assolve alcun compito vitale – ciò significa che la guerra non può rappresentare una precondizione per la sopravvivenza di una comunità politica. Se uno Stato è destinato a crollare in una situazione di invasione o di conflitto se non può ricorrere alla guerra, allora dobbiamo abolire la necessità della guerra come precondizione per la sopravvivenza dello Stato.
Nel caso della guerra difensiva, questa alternativa è coraggiosa perché l’interdipendenza globale tende a sradicare la possibilità di comportamenti non competitivi e non reciproci.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul sito della International Karl Polanyi Society, che ringraziamo.
*Mariavittoria Catanzariti is a Research Associate at the Robert Shuman Centre for Advanced Studies (EUI) and Adjunct Professor of Law & Ethics of Innovation & Sustainability at LUISS University. Barrister at law since 2010, she obtained a PhD in European Law in 2011 from Roma Tre University and the Italian Scientific Qualification as Associate Professor in Legal Sociology in 2018.