L’anno si avvia alla conclusione con i mercati confusi e frastornati, ma ancora abbastanza solidi. La confusione è dovuta al fatto di non sapere bene come trattare i dati macro (salire o scendere quando sono buoni? salire o scendere quando sono negativi?) ed è accresciuta dal fatto che l’economia manda segnali contrastanti, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa e in Asia. A rendere tutto ancora più complicato è il lento ma progressivo calo della liquidità per effetto del Quantitative tightening, che aumenta l’importanza relativa degli aspetti tecnici legati al mondo dei derivati rispetto agli aspetti fondamentali.
La relativa solidità del mercato, d’altro canto, è lo specchio di quella dell’economia reale, che continua a crescere mentre l’inflazione si è già riportata su livelli che potremmo definire ancora eccessivi ma non più patologici. Questa solidità, tuttavia, non può tradursi in rialzi di mercato per l’espresso divieto della Fed e per la possibilità di una recessione globale nel 2023, una recessione che le banche centrali mostrano di volere accettare, se non proprio provocare, come unico mezzo per riportare in equilibrio domanda e offerta.
Il 2022 si chiude comunque con un costo rilevante per i portafogli. Alla perdita del quasi 14 per cento dell’indice Msci World delle borse mondiali (misurato in euro) e alle perdite sui bond vanno aggiunti il deprezzamento dell’euro (del 7 per cento rispetto al dollaro) e la perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione del 10 per cento.
Avendo pagato un prezzo così alto, gli investitori non devono cercare di dimenticare questo 2022. Al contrario, devono studiarne le lezioni e cercare di tenerle bene in mente.
La prima lezione è che le previsioni a 12 mesi vanno prese con un grandissimo grano di sale. In questi giorni il mercato sta confrontandosi con le stime sui prossimi tre anni pubblicate dalla Fed il 14 dicembre. Queste indicano i Fed Funds alla fine del 2023 su un livello del 5-5.25 per cento. Il mercato non è d’accordo e prezza i tassi a breve di fine 2023 mezzo punto sotto la Fed. Ex ante questo appare uno scostamento rilevante, ma non è nulla se paragonato alla differenza ex post tra quanto la Fed stimava un anno fa esatto per la fine del 2022 e quello che è effettivamente accaduto. I dots di un anno fa prevedevano i tassi di oggi a 0.75-1, mentre nella realtà sono al 4.25-4.50. Se poi andiamo alle stime di fine 2021, il consenso riteneva che i tassi sarebbero rimasti inchiodati a zero fino alla metà del 2023.
Che significa questo, in pratica? Significa che i gestori devono comunque avere in testa uno scenario di base (altrimenti non si capisce come possano essere giustificate le scelte di portafoglio) ma devono includere nelle loro valutazioni di rischio scenari alternativi anche lontani da quello centrale. I momenti di bassa volatilità andranno quindi sfruttati per comprare protezione, mentre un buffer di liquidità dovrà essere creato per potere sfruttare le opportunità nei momenti di alta volatilità.
La seconda lezione del 2022 è l’importanza della geopolitica. In realtà la geopolitica è stata decisiva anche nel trentennio della globalizzazione, ma lo è stata in positivo, almeno per i mercati, e lo è stata in modo discreto, costante e silenzioso. La deglobalizzazione si presenta invece ora come agitata, destabilizzante e pericolosa.
Se la globalizzazione ha visto il trionfo degli asset finanziari, la deglobalizzazione vede il riemergere strategico di asset reali e beni rifugio. Certo, il 2023 sarà tatticamente favorevole ad alcuni asset di carta (in particolare i bond governativi di qualità) ma, guardando più in là, al buffer di liquidità dovrà fare da contrappeso ben più robusto un portafoglio di attività reali, inclusa naturalmente una componente azionaria, possibilmente orientata al valore e con multipli bassi.
La terza grande lezione è che il paragone con gli anni Settanta, spesso irriso nei due anni passati, ha perfettamente senso, al punto da essere riferimento costante di una Fed che si propone sopra ogni cosa di non ripetere gli errori di quel periodo. Gli elementi di base ci sono tutti, forse addirittura amplificati. Guerra fredda, mercato del lavoro rigido, shock da offerta intermittenti, crisi energetica, politiche fiscali espansive, inflazione endemica e tentativi inutili di controllo amministrativo dei prezzi: non manca nulla.
La fermezza che la Fed si propone di esercitare non solo nel 2023, ma anche nei due anni successivi di tassi reali positivi, non si spiega se non con la paura di ricadere nella trappola della politica monetaria di mezzo secolo fa, quando i tassi venivano tagliati non appena si entrava in recessione, anche se il fuoco dell’inflazione non era stato ancora domato del tutto. Per i mercati, l’insegnamento da trarre è dunque di non sottovalutare la serietà delle intenzioni della Fed e delle altre banche centrali.
Una quarta lezione riguarda la gestione della volatilità. Durante i bear market c’è sempre la tentazione di anticipare la fine del ciclo negativo e scommettere sulla ripresa. I bear market rally sono il risultato di questo atteggiamento, oltre che essere naturalmente effetto del posizionamento. Nel 2022 abbiamo avuto vari esempi di queste false partenze e altri, probabilmente, ne avremo l’anno prossimo. L’insegnamento da trarre è che i bear market rally, che spesso offrono opportunità interessanti, vanno inseguiti comprando volatilità senza alterare la struttura del portafoglio. Al contrario, quando sarà la volta buona (ovvero quando la Fed ci farà capire che intende cambiare politica), sarà il portafoglio che dovrà cambiare strutturalmente.
Il 2023 ha dentro di sé la possibilità di essere alla fine un anno moderatamente positivo. Sarà decisivo non comprometterlo facendosi spiazzare dalla sua volatilità.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Il Rosso e il Nero, di Kairos Partners, che ringraziamo.