Un terzo del Paese, dimenticato dalla classe politica, sta letteralmente sprofondando tra desertificazione industriale, povertà e crollo delle nascite.
Desertificazione industriale. Assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie. Rischio povertà. E crollo demografico: «Nel 2014 al Sud si sono registrate solo 174 mila nascite, livello al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l’Unità d’Italia: il Sud sarà interessato nei prossimi anni da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili». Sottosviluppo permanente. Prima della pausa estiva il rapporto 2015 dello Svimez aveva fotografato la catastrofe del Mezzogiorno dopo quasi settant’anni di Repubblica. Un paese povero in un paese ricco, un paese immobile in un paese in trasformazione.
Nelle regioni del Sud si viaggia in pullman e per arrivare a Matera, capitale della cultura europea 2019 si prende la ferrovia appulo-lucana. Un mondo separato, per parafrasare Pier Paolo Pasolini, che condiziona la fragile crescita italiana e il calo della disoccupazione rivelato dall’Istat in questi giorni. Un mondo dimenticato, sparito dalle mappe della politica italiana, terra di approdo per i migranti in arrivo dall’Africa e alla deriva nel Mediterraneo, terra di fuga per le giovani generazioni. Un mondo che sprofonda nell’illegalità e nel sopruso mafioso.
Inevitabile banco di prova per il governo di Matteo Renzi che in seguito alla pubblicazione del rapporto Svimez e alla lettera aperta di Roberto Saviano (« Caro premier, il Sud sta morendo») aveva convocato all’inizio di agosto una direzione del Pd sul Mezzogiorno. Con l’annuncio per l’autunno degli stati generali dello sviluppo convocati dal ministro Federica Guidi. E un progetto del Pd da presentare nei prossimi giorni, prima dell’approvazione della legge di Stabilità di fine mese. Un masterplan, il piano Renzi per il Sud.
Nell’attesa, il 12 settembre il premier sarà a Bari per inaugurare la fiera del Levante, tradizionale vetrina del presidente del Consiglio di turno per impegni, promesse, assicurazioni sulle politiche meridionali destinate a essere disattese. Il primo a farlo fu Benito Mussolini, nel 1934, per la quinta edizione, poi tutti i capi di governo democristiani, a partire dal pugliese Aldo Moro, tradizione interrotta da Silvio Berlusconi. A Bari Renzi è intervenuto un anno fa, nel 2013 negli stessi padiglioni lanciò la sua candidatura alla segreteria del Pd. Mai, però, si è realizzata una condizione politica così favorevole. Tutti i presidenti delle regioni meridionali, dall’Abruzzo alla Sicilia, passando per Campania, Puglia, Molise, Basilicata, Calabria e Sardegna, militano nell’area del Partito democratico e guidano giunte di centrosinistra: il campano Vincenzo De Luca, il pugliese Michele Emiliano, il calabrese Mario Oliverio, l’abruzzese Luciano D’Alfonso, il lucano Marcello Pittella, il sardo Francesco Pigliaru, il molisano Paolo Di Laura Frattura, il siciliano Rosario Crocetta.
Un parterre solo ideale, per adesso. Michele Emiliano li avrebbe voluti riunire tutti all’inaugurazione della fiera del Levante: i governatori sudisti del Pd seduti in prima fila ad ascoltare Renzi. Ma la foto di gruppo, almeno per ora, non si farà. Da Palazzo Chigi è partito un giro di telefonate con un invito esplicito: restate a casa. Meglio stroncare sul nascere qualunque ipotesi di partito del Sud dentro il PdR, il partito di Renzi. E, in ogni caso, a fare le convocazioni deve essere soltanto uno, il premier-segretario, non il governatore pugliese, da mesi nel mirino degli spin renziani come potenziale ribelle contro il governo nazionale. Tra Renzi e Emiliano i rapporti sono interrotti da maggio, da quando l’ex sindaco di Firenze chiamò l’ex sindaco di Bari per avvisarlo gelidamente che non sarebbe andato in Puglia a fare campagna elettorale per lui. Colpa della posizione di Emiliano ostile alla riforma della scuola.
Una freddezza che svela come la potenza del partito renziano al Sud (nel nuovo Senato previsto dalla riforma costituzionale, composto dai designati dei consigli regionali, a Palazzo Madama la rappresentanza del Meridione sarebbe quasi interamente in mano al Pd), in apparenza un monocolore, sia nella realtà un poliedro con molte sfaccettature. Tanti e diversi sono i Pd almeno quanti sono i Sud d’Italia.
E la grande occasione per il Pd potrebbe rovesciarsi in una terribile responsabilità. In mezzo ad alcuni timidissimi segnali di ripresa, flebili luci accese nel buio pesto disegnato dal rapporto Svimez. Il primo aumento dell’occupazione da molti anni a questa parte, il + 0,8 per cento del primo trimestre 2015 segnalato da Confindustria. L’incremento di spesa dei fondi strutturali europei, all’inizio di agosto il dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica del governo ha pubblicato gli ultimi dati, le spese effettivamente sostenute fino al 30 giugno 2015 per 52 programmi operativi regionali sono 37,3 miliardi di euro, il 79,8 per cento delle risorse programmate nel periodo 2007-2013, in aumento rispetto al 2014, anche se alla fine dell’anno resteranno da spendere 9,4 miliardi di euro. E anche se, come hanno dimostrato gli economisti Emanuele Ciani e Guido De Blasio in un report pubblicato da lavoce.info , il problema non è il quanto si spende, ma il come, e l’impatto effettivo dei finanziamenti sull’occupazione è vicino allo zero: «Un aumento dell’esecuzione finanziaria degli stanziamenti potrebbe non essere, di per sé, sufficiente: visto che questi finanziamenti non sembrano essere in grado di apportare benefici, varrebbe la pena di impegnarsi per spenderli meglio».
Conclusione in linea con quanto affermato da Renzi: basta con i piagnistei e con la richiesta di nuove risorse, di nuova spesa pubblica, per il Sud servono investimenti privati. E un racconto diverso, far emergere un altro meridione nell’immagine trasmessa all’estero. La comunicazione, lo storytelling, l’apriti Sesamo di ogni politica renziana. Che rischia di apparire lontano. E di infrangersi su piaghe antiche, la presenza della mafia e la sua capacità di inquinare la politica e l’economia, e su difficoltà più recenti, l’assenza di una classe dirigente nazionale che metta al centro la questione meridionale, il rapporto distorto con i territori locali. Le classi dirigenti «estrattive», le ha definite l’ex ministro Fabrizio Barca, «che drenano risorse dai territori ostacolandone la modernizzazione, quelle leadership locali che tendono a far sì che tutto rimanga immobile affinché possano conservare, senza intralci, le loro posizioni dominanti».
Quelle leadership oggi sono nel Sud in gran parte espressione del Pd. E tocca a loro incarnare il cambiamento, la via alla trasformazione del Sud, se mai ne esiste una. Ma nel Mezzogiorno oscillano tra modelli storici e letterari, tra i gattopardi e i viceré, con l’eterna tentazione del ribellismo, i Masaniello scagliati contro il potere centrale. «Renzi torna a centralizzare le funzioni dello Stato, ma non c’è possibilità di farlo per via partitica, bisogna passare dalle macchine istituzionali, al Sud più che altrove», spiega il politologo Mauro Calise. «Torniamo a un sistema pre-moderno, neo-imperiale. Al centro c’è il leader che non può controllare tutto. Deve sperare di trovare nel meridione una classe di feudatari che riescano a fare da traino ai loro territori. Governatori decisionisti, con il piglio e la determinazione necessari per trascinare la loro regione nel processo di riforma dello Stato che Renzi sta cercando di promuovere dall’alto».
Il governatore della Campania Vincenzo De Luca è stato il più rapido ad aderire a questo modello. Poteva trasformarsi in una bomba a orologeria per Renzi che aveva provato ad ostacolare la sua candidatura. Ma ora che è stato eletto ed è stato superato l’ostacolo della legge Severino che lo avrebbe dovuto sospendere dalle funzioni di presidente, De Luca punta a conquistare la leadership al Sud del nuovo corso renziano con la stessa formula del premier: concentrazione di potere nelle mani del leader e decisionismo. In una regione dove il governo di Roma fatica a decidere.
Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris proclama la città territorio de-renzizzato, il commissariamento di Bagnoli continua a essere rimandato nonostante le promesse di Renzi. E la nuova classe dirigente non si vede. A Salerno, per la successione di De Luca, sono in corsa i figli, Piero e Roberto. A Napoli il Pd ha divorato un nome dopo l’altro e alla fine resta in piedi il sindaco degli anni Novanta Antonio Bassolino che si gode sornione lo spettacolo della riabilitazione totale anche da parte dei suoi nemici storici. Come De Luca che ha affidato il compito di rimettere in moto la disastrata macchina burocratica alla vice-capo di gabinetto Maria Grazia Falciatore che affiancò Bassolino in regione.
In Puglia Emiliano sembra seguire la strada opposta: scatenare l’orgoglio del territorio, «sono il presidente della Puglia, non del Pd», anche a costo di dare qualche dispiacere all’uomo di Palazzo Chigi: sulla riforma della scuola, sulle trivellazioni, sul decreto Ilva, sullo stop al gasdotto azero in Salento, il Tap. Mantiene rapporti trasversali, dal dialogo con gli ex berlusconiani come Raffaele Fitto e con il Movimento 5 Stelle, a lungo corteggiato con l’offerta di un assessorato. «Governo in una condizione di Ulivo 2.0, sto cercando di mettere insieme un’alleanza che permetta al Pd nazionale di non dover dipendere da Denis Verdini sulla riforma del Senato», spiega Emiliano che si è appena dimesso dalla carica di segretario del Pd ma che in Puglia rappresenta decisamente l’uomo forte. «Io ho detto a Renzi: vieni ad abbracciare il Sud. Il Sud è la mafia, ma anche l’antimafia, siamo noi la causa del nostro sottosviluppo ma anche la chiave della nostra possibile rinascita. Renzi deve sapere che noi siamo disponibili, ma non possiamo essere convocati a bacchetta o sottoposti a strategie improvvisate». E c’è infine il modello siciliano rappresentato da Rosario Crocetta: desideroso di accreditarsi ma isolato nel Pd nazionale.
I tanti Pd sono chiamati a governare i drammi e le emergenze dei tanti Sud d’Italia. Se lo sforzo dovesse fallire un pezzo di elettorato meridionale, come in altre stagioni della storia repubblicana, è pronto alla rivolta, al voto per il Movimento 5 Stelle, nella scomparsa dei tradizionali referenti politici, la sinistra, il moderatismo. Per questo è sulla nuova questione meridionale che si giocherà la vittoria o la sconfitta del governo di Roma, di Matteo Renzi.
di MARCO DAMILANO
Questo articolo è stato orginanariamente pubblicato su L’Espresso