di Giulio Sapelli
La morte di Henry Kissinger chiude un’epoca delle relazioni internazionali planetarie: quella costruitasi dopo la fine della Seconda guerra mondiale sulle fondamenta teoriche delle riflessioni di Nicholas Spykman. Scomparso giovanissimo nel 1943, quello che è forse stato il più geniale teorico del gioco di potenza mondiale rimane ancor oggi il punto di riferimento fondamentale per intendere l’epoca che non solo è in corso, ma ancor più quella che verrà.
Il plesso da cui dominare il mondo per Spykman non era solo l’Heartland, ma soprattutto il Rimland, ossia la fascia costiera delle terre euroasiatiche che consentivano il prolungamento di potenza dalla terra-cuore dell’Heartland all’Indo-Pacifico. La guerra contro il Giappone per il dominio del mondo australe antipodale confermò quella teoria tragicamente.
Fu la tragedia atomica a far tracimare l’insegnamento spykmaniano nella teoria del contenimento nucleare perseguito dal partito repubblicano sotto la presidenza Eisenhower, teoria a cui Kissinger teoricamente e coraggiosamente si oppose, dando vita a quella strategia di superamento della deterrenza atomica che formò l’asse – con la presidenza Nixon – della strategia di contenimento armato tradizionale dell’Urss in Asia e in Africa (pagando il prezzo altissimo della sconfitta vietnamita) e contestualmente di appeasement con la Cina.
Kissinger in questo modo divideva il fronte nemico e soddisfaceva alle necessità di accumulazione allargata del capitalismo non solo statunitense ma mondiale, strategia che avrà il suo culmine con l’entrata della Cina nella Wto nel 2001. Altrettanto importante fu la strategia del dominio relativo delle potenze energetiche del Grande Medio Oriente.
Gli effetti collaterali di una mossa che sembra “buona”
Questo plesso strategico fu tradito dal ribaltamento neocon delle fondamenta della politica estera nordamericana, che giunse al suo culmine con le presidenze della famiglia Bush e in seguito della disastrosa politica di un Obama che sarà ricordato per i disastri che fu in grado di provocare non solo agli Usa, ma all’equilibrio internazionale a partire proprio dal Grande Medio Oriente.
Kissinger, sulla base del suo grande lavoro di storico lucidissimo delle vicende dell’equilibrio europeo e della diplomazia internazionale, fu il più grande interprete della scuola del realismo in politica estera. Fu la sua forza intellettuale e la sua integrità di pensatore a liberarlo dalle spire maleodoranti ipocrite delle teorie umanitaristiche che si succedettero poi contro di lui nell’arena internazionale.
L’anglosfera si ritrovò con tutta la diplomazia europea a condividere la strategia Usa dell’unipolarismo bellico che travestiva e traveste la guerra convenzionale con i panni della lotta per le democrazie e la libertà. I colpi di Stato kissingeriani in Sudamerica avevano il volto tragico della ragion di Stato – miope certamente – ma non quello delle guerre deliberatamente scatenate per assassinare Gheddafi, punire Saddam Hussein dopo averlo armato nella decennale guerra con l’Iran, scatenare lo sterminio iracheno per rispondere a un efferato atto di terrorismo di massa di marca saudita sconvolgendo per anni e anni gli equilibri nel plesso strategico dove Heartland e Rimland si uniscono e dove si decidono le sorti del mondo.
Nulla rimane oggi dell’insegnamento di Henry Kissinger in un mondo che ha letteralmente capovolto i cardini stessi della politica estera e diplomatica sostituendo ai principi del realismo quelli della lotta nazionalistica di un dominio senza egemonia di cui la politica Usa e la retorica Ue sono l’esempio più devastante.
Le conseguenze sono dinanzi a noi tutti. Un mondo in frantumi, scosso da un bradisismo che pare senza fine. I grandi classici del pensiero politico moderno si inchinano dinanzi a un loro allievo e a un loro mentore che dovrà essere di nuovo posto alla guida spirituale del mondo civilizzato. Se non vogliamo continuare a sprofondare.
Fonte: Il Sussidiario.net