È stata inviata nei giorni scorsi una lettera del ministero degli Esteri all’ambasciata della Repubblica popolare cinese in cui si comunica la volontà di non estendere la durata del memorandum sulla Nuova via della Seta oltre la scadenza del periodo di validità (22 marzo 2024), che altrimenti sarebbe stato rinnovato automaticamente per altri cinque anni. “No comment” è stata la risposta di Palazzo Chigi, interpellato in proposito.
Roma ha quindi ufficialmente informato Pechino della sua decisione di ritirarsi dall’iniziativa di punta Belt & Road del presidente Xi Jinping, ponendo fine a mesi di speculazioni su una relazione che aveva irritato gli alleati occidentali di Roma.
La decisione formale arriva tre mesi dopo che il Primo Ministro Giorgia Meloni – che in passato aveva definito un “errore” la partecipazione di Roma alla BRI – ha confermato pubblicamente che il suo governo di destra stava prendendo in considerazione un ritiro, pur affermando la sua determinazione a mantenere “reciprocamente vantaggiosi” i rapporti con Pechino.
La decisione di Roma del 2019 di aderire all’ambizioso programma cinese di investimenti in infrastrutture e commercio internazionale aveva lasciato perplessi gli alleati occidentali – soprattutto gli Stati Uniti – poiché era l’unica delle principali economie del G7 a farlo.
Stefano Stefanini, ex ambasciatore italiano presso la Nato, ha affermato che il governo italiano dell’epoca – un’improbabile coalizione tra il Movimento Cinque Stelle e la Lega (ormai di estrema destra e in lotta con la Meloni) di Matteo Salvini – aveva “sottovalutato la rilevanza geopolitica dell’iniziativa”.
“Pensavano che l’Italia avrebbe potuto farla franca avvicinandosi alla Cina nonostante fosse l’unico paese del G7 a farlo”, ha aggiunto Stefanini.
Ma il governo Meloni ha deciso che la continua partecipazione dell’Italia all’iniziativa è ora insostenibile, dato il deterioramento delle relazioni tra Pechino da un lato e Washington e l’UE dall’altro, e gli sforzi occidentali per ridurre la dipendenza dalla Cina, in particolare nelle aree strategiche.
“Ora esiste una politica ufficiale del G7 chiamata riduzione del rischio”, ha affermato Stefanini. “Gli Stati Uniti avevano chiarito all’attuale governo italiano che la partecipazione era incompatibile con la posizione dell’Italia nel G7”.
Il governo italiano era ansioso di trovare un modo per ritirarsi senza troppi clamori dal progetto senza provocare dure ritorsioni da parte di Pechino. Il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani si è recato quest’anno a Pechino per colloqui con il governo cinese, mentre Meloni ha incontrato il premier cinese Li Qiang a margine del vertice del G20 a Nuova Delhi a settembre.
In una conferenza stampa successiva a quell’incontro, Meloni sottolineò il desiderio dell’Italia di mantenere forti legami con la Cina, anche se la premier segnalò chiaramente la possibilità dell’uscita dell’Italia dalla BRI. “La questione è come garantire una partnership che possa essere reciprocamente vantaggiosa indipendentemente dalle scelte che faremo sulla BRI”, affermò Meloni.
Tuttavia, Michele Geraci, che come sottosegretario al Ministero dello sviluppo economico italiano nel 2019 con il governo giallorosso M5S-Lega aveva sostenuto l’adesione dell’Italia alla BRI con il famoso Memorandum, è molto critico nei confronti della decisione di chiamarsi fuori dalla Via della Seta presa dal governo Meloni.
“Non c’è alcun vantaggio nell’uscire”, ha detto Geraci. “È una decisione che danneggerà le aziende italiane che hanno bisogno della tutela del governo per fare affari nel mondo. Mi aspetto che le nostre esportazioni ne soffriranno molto. La reazione dei consumatori cinesi sarà feroce contro i prodotti di lusso del Made in Italy”.