Tassi & Fed: $2,4 trilioni di bond globali a rischio

Un eventuale aumento dei tassi americani finirebbe per rendere ancora più forte la valuta Usa con effetti devastanti per i debiti delle economie emergenti.  Aldemir Bendine, amministratore delegato del …

Un eventuale aumento dei tassi americani finirebbe per rendere ancora più forte la valuta Usa con effetti devastanti per i debiti delle economie emergenti. 

Aldemir Bendine, amministratore delegato del gruppo petrolifero brasiliano Petrobras, si trova su una poltrona che scotta. Non solo il prezzo del greggio è tracollato, il Brasile è sprofondato in recessione e Petrobras è stata travolta dagli scandali. Ma soprattutto il gruppo che dirige ha 140 miliardi di dollari di debiti, per il 55% denominati in valuta estera (cioè dollari ed euro): il crollo del real brasiliano, che da inizio anno ha perso il 31% sul dollaro, ha dunque l’effetto di rendere più difficile il rimborso. Tanto che S&Ps ha tagliato il rating di Petrobras al livello di «spazzatura».

Ecco perché Mr Benedine guarda con apprensione alla riunione di giovedì della Federal Reserve: perché se la banca centrale Usa decidesse di alzare i tassi, causando un possibile ulteriore rincaro del biglietto verde sul real brasiliano e un aumento dei tassi in dollari, per Petrobras i guai diventerebbero ancora maggiori. Purtroppo il problema non riguarda solo Mr Benedine: le aziende dei Paesi emergenti – calcola Rbs – hanno infatti sul mercato un totale di 2.400 miliardi di dollari di obbligazioni, cioè di debiti in gran parte in valuta estera. Calcola Iif che solo il 30% è coperto dal rischio di cambio attraverso derivati. Nel mondo, stima Morgan Stanley, le aziende non statunitensi hanno 9.200 miliardi di dollari di debiti denominati nella valuta Usa (erano appena mille miliardi 10 anni fa). Per questo molti economisti implorano la Fed di non alzare i tassi: perché il rimborso di questa montagna di debiti diventerebbe più difficile. Anche se altri, inclusi alcuni governatori di banche centrali di Paesi emergenti, preferiscono “togliersi il dente” subito.

Il dilemma di Janet Yellen

Ecco cosa la Fed si trova a decidere tra mercoledì e giovedì. Da un lato per la banca centrale Usa non è più giustificato tenere i tassi a zero, perché l’economia americana è ripartita: il Pil (stima Morgan Stanley) quest’anno dovrebbe crescere del 2,4% dopo essere aumentato di una percentuale analoga nel 2014, mentre la disoccupazione negli Usa è scesa ormai al 5,1%. È vero che la dinamica dei salari è ancora incerta e che la partecipazione al mercato del lavoro è molto bassa. Ma è anche vero che questi numeri non giustificano più tassi d’interesse a 0-0,25%. Anche perché tassi così bassi fomentano le bolle speculative: prima la Fed elimina l’anomalia dei tassi a zero, dunque, meglio è.

D’altro canto, però, le conseguenze internazionali di un rialzo potrebbero essere pesanti. Soprattutto sui Paesi emergenti. Per loro il problema è innanzitutto legato, come visto, alle aziende iper-indebitate in dollari: persino in Arabia Saudita il 65% del credito alle imprese ormai è denominato in dollari. Esiste però anche una questione valutaria, dato che le monete dei Paesi emergenti si sono molto indebolite negli ultimi mesi: la rupia indonesiana ha perso il 13% da inizio anno sul dollaro, il peso messicano il 12%, la lira turca il 23% e il rublo russo il 14%. Per difendere i cambi, le banche centrali sono in molti casi state costrette a bruciare riserve valutarie, che infatti a livello globale si sono ridotte di 600 miliardi di dollari nell’ultimo anno. Questo diventa un ulteriore elemento di debolezza per i Paesi emergenti, che verrebbe aggravato da un rialzo dei tassi Usa.

Per loro c’è poi un problema legato alle materie prime, di cui molti emergenti sono grandi esportatori: il 48% dell’export brasiliano è costituito da meterie prime, come il 18% dell’export indiano, il 21% indonesiano e l’82% russo. Più il dollaro rincara, più le materie prime (che si comprano in dollari) perdono quota sui mercati internazionali, causando danni enormi sui Paesi esportatori. Tutto questo non può non essere tenuto in debito conto dalla Fed: se una “stretta” causasse contraccolpi sui Paesi emergenti, le conseguenze si ripercuoterebbero infatti sulla stessa economia Usa. Circa il 28% dell’export statunitense finisce infatti in Messico, Cina, Brasile, India, Colombia e Cile, tutti Paesi che rallentano o che già sono in recessione. Le conseguenze negative sull’export si sentirebbero anche in Europa. Inferiore, però, l’impatto sui debiti Ue: anche le aziende del Vecchio continente emettono obbligazioni in dollari, ma generalmente per importi residuali e – spesso – coperte dal rischio di cambio.

Credibilità in gioco

Alzare, dunque, o non alzare? Janet Yellen sa che non può attendere troppo. Può aspettare dicembre, lasciando tutto invariato settimana prossima. Ma prima o poi una decisione deve prenderla, perché più volte sia lei sia vari membri della Fed hanno lasciato intendere che avrebbero aumentato i tassi nel 2015. Se la banca centrale Usa si rimangiasse la parola, rischierebbe di perdere la sua credibilità. Già ora – secondo un sondaggio di Rbs tra gli investitori – è abbastanza compromessa: secondo il 68% di loro, tutte le banche centrali stanno perdendo credibilità. L’unica motivazione che la Fed potrebbe usare per rinviare questa pericolosa decisione sarebbe quella dell’inflazione, dato che non dà segnali di risalita. Ma l’inflazione non era un problema neppure quando Yellen diceva che avrebbe rialzato i tassi: sui mercati sembrerebbe probabilmente una scusa, buona solo per tornare a speculare per un po’.

di Morya Longo

Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Il Sole 24 Ore

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