Privatizzare senza liberalizzare

Dove si vuole arrivare con queste privatizzazioni? E la strategia del governo Meloni è coerente? La risposta è no. Difendono le categorie che temono l’apertura al mercato (balneari e tassisti) ma al tempo stesso si fanno alfieri di quel mercato. Vendono non per scelta, ma per necessità.

di Francesco Manacorda

Privatizzare senza liberalizzare. Difendere le categorie che temono l’apertura al mercato, ma al tempo stesso farsi alfieri di quel mercato. Vendere non per scelta, ma per necessità. Il governo dei patrioti mette in mostra la sua mercanzia al gran bazar globale di Davos, e questa è già di per sé una notizia: a quando una puntata di Meloni alla Trilateral?

Ma al netto dell’obbligato percorso che trasforma gli incendiari da tribuna elettorale, una volta arrivati al governo, in pompieri in servizio permanente effettivo, la presenza del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti nella cittadina svizzera eletta a temporanea capitale del mondo, i numerosi colloqui vuoi con ministri sauditi e qatarini, vuoi con yankeesissimi banchieri a capo di Bridgewater, Jp Morgan e via andare, mostra una disponibilità che sa tanto di necessità.

Ci sono i titoli di Stato italiani da piazzare, ovviamente, visto che nell’anno in corso bisognerà collocarne la bellezza di circa 350 miliardi di euro, con la rete di sicurezza della Bce che non è più accogliente come in passato, i tassi che restano alti e il mercato domestico, quello del risparmio italiano, che più di tanto non può fare. E poi, come si è subito saputo nelle stanze di Davos e dintorni, anche quote di aziende di gran pregio come l’Eni, le Poste; forse le Ferrovie dello Stato, a stare alle anticipazioni della premier Meloni nella sua conferenza stampa di inizio 2024.

Niente di cui scandalizzarsi, specie se grazie a queste operazioni Palazzo Chigi e il Tesoro riusciranno a portare a casa quest’anno almeno un terzo dei 20 miliardi di incassi da privatizzazioni segnati — tra l’incredulità generale — al triennio 2024-2026 nell’ultima legge di Bilancio. Ma al netto delle operazioni riuscite — un miliardo già incassato per il 25% di una Banca Mps che appare risanata — e di quelle che potranno riuscire, restano due temi fondamentali: dove si vuole arrivare con queste privatizzazioni? E la strategia del governo a questo proposito è coerente?

La risposta alla prima domanda è che l’imperativo è fare cassa: sperabilmente non solo e non tanto per mantenere le innumerevoli promesse elettorali. Quella al secondo interrogativo è semplice ed è un rotondo “no”. Da una parte si punta a vendere quote di aziende ancora a controllo pubblico; dall’altra lo Stato rientra dalla finestra, o talvolta dall’uscita di emergenza.

È il caso dell’Ilva, dove di fronte alla fuga degli angloindiani di ArcelorMittal, l’ipotesi di un intervento pubblico ancora più forte di quello già esistente si è concretizzata; accade in modo diverso e più intricato, con il caso della rete Telecom: nell’operazione per la nuova società della rete partecipa con un sostanzioso chip da 100 milioni di euro consegnato al fondo F2i, anche Poste Vita, ossia la compagnia assicurativa controllata dalle Poste, a loro volta controllate dallo Stato. Lo stesso Stato che si prepara appunto a fare ulteriore spazio ai privati nella compagine azionaria di Poste. Una sorta di matrioska finanziaria dove le bamboline del pubblico e del privato si alternano come un rompicapo.

E parlando di mercato, chissà quali assicurazioni avrà dato Giorgetti ai suoi interlocutori finanziari sui temi che in queste settimane agitano gli investitori stranieri e non, a partire da quel ddl capitali che rischia di rendere alcuni azionisti orwellaniamente “più uguali” degli altri e di allontanare così gli investitori dalla nostra Borsa.

Si potranno vendere tutte le quote che si vogliono delle aziende pubbliche, ma con leggi farraginose e la difesa a oltranza di categorie come i tassisti e i balneari con le quali la destra ha stretto un patto di ferro, gli effetti saranno solo per le casse pubbliche e non per la crescita dell’economia italiana.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato da La Repubblica, che ringraziamo

 

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