di AntonGiulio De Robertis*
In Occidente, da parte dei politici e dei commentatori più autorevoli, viene costantemente riaffermato il proprio impegno per il Liberal International Order, mentre nei documenti conclusivi delle organizzazioni in cui sono riuniti i principali paesi occidentali, come l’Unione Europea, il G7 e la NATO, l’ordine internazionale di cui si auspica il rispetto è il Rules-based International Order.
Il discostarsi della terminologia ufficiale, dal tradizionale riferimento all’ordine liberale, è coinciso con l’abbandono di alcuni dei pilastri su cui si è basata la politica internazionale dell’Occidente nel secondo dopoguerra, fino alla fine della guerra fredda e del confronto con il blocco sovietico.
La competizione fra i due blocchi si è progressivamente attenuata proprio grazie alla graduale accettazione da parte del Cremlino dei principi dell’ordine internazionale liberale, proposti fin dall’inizio della seconda guerra mondiale con la Carta Atlantica di Churchill e Roosevelt e con la Dichiarazione delle Nazioni Unite.
Benché alla creazione di quest’ordine, già sul finire del conflitto, avessero partecipato anche i sovietici con gli accordi di Bretton Woods e con la creazione dell’ONU, le profonde divergenze con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sull’assetto postbellico portarono alla nascita della NATO e del Patto di Varsavia, determinando una contrapposizione fra l’URSS e l’Europa orientale da un lato e gli Stati Uniti e l’Europa occidentale dall’altro.
Ciò fece sì che l’ordine internazionale liberale si affermasse inizialmente solo nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, e venisse poi progressivamente adottato da molti dei paesi che uscivano dalla dominazione coloniale.
A seguito dello shock provocato dalla crisi di Cuba si avviava però, su iniziativa del Patto di Varsavia, una dinamica diplomatica che avrebbe portato, agli inizi degli anni Settanta, alla convocazione in Finlandia della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione Europea e alla successiva approvazione (agosto 1975) dell’Atto di Helsinki. Atto nel quale anche la diplomazia moscovita sottoscriveva quelli che Fareed Zakaria, nel suo fondamentale articolo sull’illiberal democracy, definiva l’espressione più autentica del liberalismo costituzionale occidentale esteso “across the globe”.
Questa adesione del blocco orientale al liberalismo internazionale dell’Occidente favorì quella graduale evoluzione, in Unione Sovietica, che avrebbe portato alla glasnost e alla perestrojka di Gorbaciov. E, infine, al colloquio del settembre 1990 tra lo stesso Gorbaciov e il presidente George H. Bush in cui veniva concordato un ordine internazionale pienamente condiviso fra Stati Uniti e Unione Sovietica, a sancire la definitiva conclusione della guerra fredda. Con la fine della divisione della Germania del mese successivo e, poi, nel novembre, con quell’unanimità sulla risoluzione 678 in Consiglio di Sicurezza, sulla crisi del Kwait, che Bush indicò, nelle sue memorie, come uno spartiacque della Storia.
Spartiacque della Storia perché l’adesione in Consiglio di Sicurezza dell’Unione Sovietica, sull’ipotesi di un intervento militare americano nel Golfo Persico, confermava il più importante, forse, dei principi del Liberal International Order, posto in essere con la creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ovvero, che l’uso legittimo della forza nelle relazioni internazionali fosse irrinunciabilmente legato all’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.
Quello che aveva spesso impedito al Consiglio di Sicurezza di deliberare efficacemente era stato il veto dei suoi membri permanenti, esercitato prevalentemente dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Con i colloqui di Helsinki, del settembre ’90, le divergenze di fondo delle due superpotenze venivano avviate a soluzione. Gorbaciov, con le sue assicurazioni a Bush, portava poi a compimento la piena adesione allo spirito e alla lettera dell’atto di Helsinky e ai principi del Liberal International Order in esso espressi. E l’ONU veniva messa in condizione di operare efficacemente.
Con la mancata rielezione di Bush, la presidenza di Bill Clinton e la sua strategia del “democratic enlargement”, l’Occidente, pur continuando a dichiararsi promotore del Liberal International Order, adottava nella sostanza una prassi che oggi potremmo più correttamente definire neoliberal. In coerenza con quanto sosteneva autorevolmente lo stesso presidente del Council of Foreign Relations di New York, Richard Haas, in un suo articolo del 2017 dal titolo “World Order 2.0”. Un ordine neoliberale in cui veniva adottata una politica di regime change in palese contrasto con il punto di Helsinki sull’impegno a non interferire negli affari interni dei singoli paesi. Da lì in poi cominciò a consolidarsi, iniziando dalla Jugoslavia, una prassi di interventi militari senza l’avvallo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che sarebbe proseguita anche con le presidenze successive.
Anche se nei commenti degli organi di informazione si continuava a parlare del Liberal International Order come norma dell’azione di politica internazionale dei paesi occidentali, nella sostanza essi se ne allontanavano progressivamente. E nelle loro prese di posizione ufficiali appariva l’espressione rules-based order, più compatibile con la prassi ormai in uso. Pochi mesi dopo la sua nomina a segretario di Stato, Antony Blinken affermava – a proposito delle relazioni degli Stati Uniti con la Cina – che lo scopo dell’amministrazione Biden “non …[era] quello di ‘contenere’ la Cina”, ma piuttosto di sostenere un cosiddetto rules-based order e di impedire alla Cina di indebolirlo.
La Cina si esprimeva su questo punto insieme alla Russia nel marzo del ‘22 con il comunicato congiunto “sull’approfondimento del partenariato strategico globale di coordinamento nella nuova era”, ribadendo il proprio impegno per l’osservanza degli obiettivi e dei principi della Carta delle Nazioni Unite e per il rispetto del diritto internazionale. Affermandone l’insostituibilità con il rules-based order.
*AntonGiulio De Robertis è uno storico di Relazioni internazionali, Vicepresidente Comitato Atlantico, visiting Università di San Pietroburgo.
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