di Matteo Ramenghi
Chief Investment Officer di UBS WM Italy, UBS Europe SE, Succursale Italia
L’economia statunitense è stata la sorpresa del 2023: a inizio anno molti la vedevano in recessione, ma gli Stati Uniti hanno chiuso l’anno con una crescita ben superiore al 2%. Un tale scarto rispetto alle previsioni è ancora più sorprendente considerando che gli Stati Uniti rappresentano un quarto del prodotto interno lordo (PIL) mondiale.
Gli ultimi dati hanno continuato a sorprendere: a gennaio la creazione di posti di lavoro ha raggiunto le 353 mila unità, il doppio delle attese; la componente dei nuovi ordini dell’indice ISM del settore manifatturiero ha mostrato nello stesso mese un valore di 52,5, il più alto da 20 mesi, che significa un’ulteriore accelerazione. Le stime della Federal Reserve (Fed) di Atlanta suggeriscono che il primo trimestre non dovrebbe mostrare cedimenti.
Ancor più sorprendentemente, la forza dell’economia non sta impedendo di ridurre l’inflazione, che è scesa al 3,9%. Un dato probabilmente sovrastimato per via di alcune convenzioni contabili riguardo ai canoni delle locazioni immobiliari, mentre escludendole l’indice si sarebbe fermato ben al di sotto del 3%. In effetti, le retribuzioni stanno salendo ma a un tasso che non dovrebbe alimentare spirali inflazionistiche (dello 0,9% nel quarto trimestre dello scorso anno).
Le ultime trimestrali delle società quotate confermano le stesse tendenze: il 76% ha riportato utili al di sopra delle aspettative soprattutto grazie ai ricavi e le indicazioni per l’inizio dell’anno sono positive.
Insomma, se un anno fa si poteva pensare a un atterraggio brusco dell’economia dopo l’euforica fase post pandemia, ora si discute se abbiamo davanti un atterraggio morbido o addirittura non ci sarà una frenata. Ma cosa ha portato a una performance così sorprendente? Sicuramente molto dipende dalla flessibilità dell’economia americana e da alcune politiche industriali. Gli Stati Uniti hanno compiuto scelte nette riguardo all’ammodernamento delle proprie infrastrutture e alla rilocalizzazione di attività produttive, il reshoring, mobilitando enormi risorse e aumentando il debito federale. Insomma un approccio quasi opposto rispetto all’Europa, che non ha messo in campo politiche così energiche ed è più focalizzata nel contenere l’indebitamento.
La costruzione di immobili non residenziali, largamente trainata dagli stabilimenti produttivi, è cresciuta del 12,7% lo scorso anno. Gli annunci di investimenti nella manifattura da parte di società private negli ultimi tre anni hanno raggiunto la gigantesca cifra di 642 miliardi di dollari.
Di pari passo gli Stati Uniti stanno investendo per migliorare le proprie infrastrutture e colmare alcune lacune, come la produzione di semiconduttori. La costruzione di strade e autostrade lo scorso anno ha raggiunto livelli che non si vedevano da vent’anni e lo stesso si può dire per gli investimenti nel campo idrico.
Ovviamente gli investimenti richiedono risorse finanziarie e il deficit federale è conseguentemente elevato, stimato quasi al 6% lo scorso anno. Di fatto, dal 2008 in poi è stato (di poco) inferiore al 3% solo per un paio d’anni. A medio termine ci aspettiamo che il deficit non scenda significativamente, mentre il debito federale sorpasserà con decisione la soglia del 100% del PIL. Tant’è che alcune agenzie di rating hanno messo in discussione la tradizionale AAA operando downgrade negli ultimi anni. A lungo andare, un elevato deficit potrebbe però portare a una fase di debolezza del dollaro.
Un altro aspetto che ha spinto l’economia americana è la straordinaria propensione al consumo. Se è vero che in tutte le economie avanzate i lavoratori dipendenti hanno accumulato risparmi durante la pandemia, solo negli Stati Uniti sembra che questi risparmi vengano spesi. Stimiamo che degli oltre 2 mila miliardi di dollari di extra-risparmi derivanti dalla pandemia la metà sia stata impiegata negli ultimi due anni, spingendo la domanda interna e il PIL. Si tratta chiaramente di un elemento non sostenibile nel tempo, ma è pur vero che l’economia risente molto dell’inerzia e quindi questo effetto non è destinato a svanire rapidamente.
Non c’è quindi da stupirsi che la Federal Reserve non abbia tagliato i tassi d’interesse lo scorso gennaio e abbia preso tempo, togliendo enfasi alla prossima riunione di marzo. Ci attendiamo comunque quattro tagli da un quarto di punto a partire da maggio.
I mercati non sembrano essersi ancora appassionati al tema, ma a inizio novembre si terranno le prossime elezioni presidenziali. Per il momento si delinea una sfida tra l’attuale Presidente Joe Biden e l’ex Presidente Donald Trump. Nessuno dei due pare godere di particolare popolarità e lo scenario più probabile sembra quello di un confronto duro nei prossimi mesi. Non si possono comunque escludere colpi di scena. Ormai la disaffezione nei confronti della politica contraddistingue anche gli Stati Uniti: secondo un sondaggio di Gallup il 63% degli elettori americani ha indicato che sia il partito repubblicano che quello democratico non rappresentano bene i loro interessi.
Le prime indicazioni programmatiche dei due candidati sono opposte su molti fronti. Se Biden rinnoverebbe gli sforzi contro i cambiamenti climatici e le diseguaglianze, Trump sembra più concentrato sul contenimento dell’immigrazione, nuovi dazi, deregulation della finanza e riduzione di impegni finanziari e tassazione.
Il sistema americano assegna molta autonomia al Presidente per quanto riguarda la politica estera e la sicurezza, mentre la politica interna, in particolare in materia economica, richiede l’approvazione del Congresso. Non è scontato che il prossimo Presidente abbia il controllo di entrambe le camere e quindi molte iniziative e promesse della campagna elettorale potrebbero venire diluite.
Tutto considerato, ci aspettiamo che la borsa americana (indice S&P 500) nei prossimi mesi rimanga più o meno sui livelli attuali, anche se non si può escludere un periodo di euforia che spinga ulteriormente l’indice. Anche se può sembrare controintuitivo, nel breve termine il principale rischio è che l’economia vada troppo bene, l’inflazione non scenda e la Federal Reserve posticipi i tagli dei tassi.
In aggiunta, l’effetto di potenziali eventi avversi sulle borse potrebbe essere amplificato dalla particolare natura del mercato azionario, che ormai vede una prevalenza di scambi eseguiti tramite algoritmi. La gran parte di questi automatismi è legata alla volatilità: quando è bassa, porta ad aumentare il rischio e quindi l’esposizione azionaria. Ciò significa che un evento avverso che dovesse far salire rapidamente la volatilità potrebbe innescare un temporaneo effetto domino.
I rendimenti obbligazionari a medio-lungo termine rimangono invece interessanti e possono avere caratteristiche anticicliche: infatti, qualora l’economia dovesse sorprendere in negativo e le banche centrali fossero costrette ad accelerare i tagli dei tassi d’interesse, questi titoli aumenterebbero di valore.
(Il presente rapporto è stato elaborato da UBS Europe SE, Succursale Italia)