Maxi inchiesta su oltre 4,5 miliardi spediti dall’Italia alla Cina. Basta spezzettare i versamenti in piccoli “bonifici” inferiori ai 2mila euro.
Via Fabio Filzi 39/A, Prato. Ricordatevi questo indirizzo. Da qui parte una montagna di soldi sottratti al fisco e che il fisco non vedrà più. Un’inchiesta che chiama in causa una delle più grandi banche del mondo e un processo che chissà se si terrà mai. Siamo nel cuore della Chinatown pratese. Un bugigattolo di 30 metri quadri con due vetrine in un pezzo d’Italia dove anche il kebabbaro ha l’insegna con gli ideogrammi. Da qui sono passati 1,077 miliardi di euro, in contanti, nell’arco di tre anni e mezzo. Finché non è arrivata la Guardia di Finanza, che ha rotto il giocattolo e portato alla luce una rete di «sportelli» come quello pratese sparsi tra la Toscana, Roma e Milano. Un giro impressionante di denaro – oltre 4,5 miliardi euro -, una quantità notevole di reati e 297 richieste di rinvio a giudizio tra persone fisiche e società. C’è anche il colosso pubblico Bank of China e nel marzo prossimo si dovrebbe tenere l’udienza preliminare. Ma di questo parleremo dopo.
I numeri
Prima, è utile capire di cosa – e di quanto – stiamo parlando. Quei 4,5 miliardi portati alla luce dall’inchiesta non sono tutti frutto di evasione. Ma sono più o meno quanto costa allo Stato abolire Imu e Tasi. Il miliardo abbondante passato dal negozio di via Filzi è circa un quarto di quanto il ministero dell’Economia spera di incassare dalla privatizzazione delle Poste. La metà di quanto assegnato dal governo (2,2 miliardi) al piano per la banda ultralarga nell’ultimo Def.
Le indagini
Chiariti i numeri, si può raccontare quello che è successo. Siamo nel 2008 e al Nucleo tributario della Gdf di Firenze notano che un piccolo operatore di money transfer, la Money2Money (M2M) di Bologna, movimenta tanti soldi nell’area fiorentina. Incrociando i dati di Bankitalia risultano «transitati» milioni di euro, ma di clienti, in via Filzi, se ne vedono pochi. Il trucco è semplice: i flussi di denaro vengono spezzettati in tanti trasferimenti da 1999,99 euro, sotto la soglia dei 2000 euro che avrebbe fatto scattare le segnalazioni automatiche antiriciclaggio. Per farlo, alla M2M avevano messo in piedi un sistema di documenti falsi, intestati a cittadini cinesi inesistenti, ignari e in qualche caso anche morti.
L’indagine fa emergere una valanga di «nero». Ma anche traffico di merci contraffatte, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo. In un capannone di Sesto Fiorentino spuntano 1255 borse di Hermes. A Fiumicino 30 mila accessori marchiati Dolce&Gabbana, falsi Breil e Morellato. Uno degli indagati viene beccato mentre si occupa di fornire documenti falsi a cinesi clandestini. A Marmirolo, in provincia di Mantova, spunta un laboratorio con lavoratori cinesi clandestini «alloggiati in precarie condizioni igieniche», annota il pm. La sintesi perfetta la fornisce agli inquirenti Fabrizio Bolzonaro, socio della Money2Money: all’agenzia di money transfert stanno «riciclando i soldi della mafia», dice in un’intercettazione. Non è solo colore. Ad alcuni degli indagati i pm contestano anche l’associazione mafiosa. Al vertice di tutto sembra esserci la famiglia Cai, soci cinesi di Bolzonaro nella M2M. Quando arrivano loro, il fatturato della M2M s’impenna e passa da 85 milioni nel 2006 a oltre 400 nel 2007.
Sopra tutto questo c’è l’evasione fiscale. L’imprenditore cinese che dichiara 17 mila euro e spedisce in Cina 1,89 milioni. Quello sconosciuto al fisco che invia oltre 800 mila euro. Ci sono evasioni di Iva, diritti doganali, imposte sul reddito e contributi previdenziali. Poi c’è Bank of China, controllata dalla Repubblica Popolare. Dalla sua sede milanese sono transitati 2,199 miliardi diretti verso Pechino senza nessuna segnalazione di attività anomala alle autorità italiane, «agevolando e rafforzando così tale organizzazione criminale», scrive il pm. Delle sue responsabilità si sta occupando anche Bankitalia. Intanto ha restituito circa 1 milione di commissioni incassate su quei trasferimenti.
Tempi lunghi
Ora la parte meno divertente. L’inchiesta inizia nel 2008. I primi sequestri sono del 2010. L’avviso di fine indagini e la richiesta di rinvio a giudizio sono della primavera scorsa. Solo per le notifiche è stato necessario più di un anno. In marzo ci sarà l’udienza dal Gup, ma prima c’è da tradurre in cinese gli atti dell’inchiesta e non è facile trovare traduttori. «Chissà se vedremo mai il processo», si lascia scappare un investigatore. A fronte dei reati fiscali, sono partite le contestazioni dell’Erario. Per ora sono stati individuati circa 50 milioni, alla fine saranno qualcuno in più. Niente, rispetto a quei 4,5 miliardi finiti in Cina.
di Gianluca Paolucci
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da La Stampa
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DOPO LE INCHIESTE CROLLANO LE RIMESSE VERSO PECHINO MANCANO DUE MILIARDI
Che fine hanno fatto i soldi dei cinesi? Nessuno lo sa. Sono semplicemente spariti. Un anno un fiume di denaro partiva dall’Italia per finire nella Repubblica popolare, l’anno dopo quel fiume era un rigagnolo, l’anno successivo era in secca. Si parla di criptomonete, di hawala (la finanza informale di origine islamica) e di altri sistemi di trasferimento più o meno leciti. La verità è che nessuno sa nulla. L’unica cosa certa è quell’impressionante anomalia che emerge dall’andamento delle rimesse. La Cina, da anni, faceva la parte del leone. Dal 2005 sono stati trasferiti qualcosa come 16 miliardi di euro (un quarto dei 60 a cui ammontano le rimesse di tutti gli stranieri che vivono in Italia). Fino al 2012 l’andamento era in continua crescita.
Quell’anno le rimesse cinesi ammontavano a 2,6 miliardi di euro. Poi, il tracollo. Nel 2013 si è scesi a meno della metà, 1,090 miliardi. Nel 2014 a 819 milioni, addirittura al di sotto dei romeni che, con i loro 876 milioni trasferiti, sono diventati la prima etnia per rimesse. Cosa è accaduto? Perché questo tracollo? Difficile dirlo. Certo è che nel 2010 un’inchiesta ha scoperchiato il vaso di pandora dei money transfer di Prato e Firenze. Centinaia di milioni passavano da uffici di poche decine di metri quadri attraverso innumerevoli operazioni sotto soglia. E nel 2012 la Guardia di Finanza di Roma ha battuto a tappeto i money transfer della capitale in una maxioperazione antiriciclaggio. Il giro di vite può aver dirottato i capitali cinesi verso altre reti di trasferimento di denaro? Possibile.
Abbiamo analizzato dieci anni di transazioni transfrontaliere raccolte dalla Banca d’Italia. Abbiamo estrapolato impennate nei trasferimenti che superano il 500% rispetto al mese precedente. Abbiamo ottenuto 1500 crescite sospette. Le abbiamo filtrate prendendo in considerazione solo valori che superassero i dieci milioni di euro. Il risultato è piuttosto interessante. Abbiamo individuato 15 anomalie. Nel 2010, mentre le transazioni cinesi crollavano in quel di Prato (da 464 milioni a 173), la Puglia registrava un’impennata insolita: a Bari si è passati da 1,1 a 21 milioni di euro, per poi riassestarsi su un più congruo 4,1 milioni nel 2011. Stessa cosa nel 2012: mentre la Finanza setacciava i money trasfer capitolini, in provincia di Lecce si passava da 0,9 a 16 milioni, per poi tornare a 2,6 milioni nel 2011. Ma le anomalie non riguardano solo i cinesi. Anche i bulgari hanno fatto registrare incredibili performance. E tutte concentrate nel 2008: a Roma si è passati da 3,9 a 49,6 milioni, a Firenze da 0,5 a 10 milioni e a Prato da 0,05 a 22,9 milioni. Si tratta di exploit che evidentemente nascondono un sistema di trasferimento del denaro ancora troppo opaco.
di Raphael Zanotti
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da La Stampa