FUORI DAL MONDO – Le violazioni israeliane del diritto internazionale risalgono a quando il sionismo si è rivelato un progetto di colonialismo insediativo. Israele deve la sua legittimità giuridica alla risoluzione 181 dell’Assemblea generale ma da lì in poi ha ignorato o apertamente violato le risoluzioni successive. Gli «stati fuorilegge» sono quelli che si pongono fuori dal «diritto dei popoli»: Israele sembra un caso di scuola.
di Luca Baccelli
«Sarebbe giustificato e morale far morire di fame due milioni di civili» ha dichiarato il ministro israeliano delle finanze, Bezalel Smotrich, lamentando che però il mondo non lo permetterebbe. Ma ci stanno provando. Anche con le due leggi, approvate dalla Knesset, che bandiscono dai territori occupati palestinesi l’Unrwa.
Si tratta, come è noto, dall’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi (6 milioni), che attualmente rappresenta lo strumento necessario per far arrivare i pochi aiuti internazionali lasciati filtrare da Israele, indispensabili per la mera sopravvivenza della gente di Gaza. O meglio, della sua parte centro-meridionale, perché nel Nord da settimane non arriva niente e la popolazione che sopravvive ai bombardamenti e agli attacchi è deportata.
L’UNRWA rappresenta una spina nel fianco di Israele fin dalla sua costituzione, dopo la pulizia etnica del 1947-48 e la riduzione a profughi della maggior parte dei palestinesi. Ha subito un attacco inedito all’indomani del 7 ottobre quando è bastata l’accusa a 19 suoi operatori di essere coinvolti perché una serie di paesi occidentali, fra cui l’Italia, bloccasse i finanziamenti. Ora è chiaro che l’attacco all’Unrwa si inserisce in una strategia di intenzionale riduzione alla fame della popolazione palestinese che continua da più di un anno: il crimine di starvation, richiamato nel ricorso del Sudafrica alla Corte internazionale di Giustizia (Icg) e dal procuratore della Corte Penale Internazionale (Icc).
Ed è altrettanto chiaro che il bando si inserisce in una guerra di Israele alle Nazioni unite. Una guerra mediatica, quando sono state accusati di antisemitismo la Icj per la sua decisione che dichiara «plausibile» l’accusa di genocidio e per il parere che dichiara illegale l’occupazione di Gerusalemme Est, Gaza e Cisgiordania, seguito dalle risoluzione approvata dell’Assemblea generale del 18 settembre che intima a Israele di «porre fine senza indugio alla sua presenza illegale».
Così come antisemita sarebbe il procuratore della Icc che ha chiesto l’arresto del premier Netanyahu e del ministro della difesa Gallant, considerandoli uguali ai leader di Hamas di fronte alla legge. Una guerra politica, al suo apice quando Netanyahu in Assemblea generale ha definito le Nazioni unite «palude antisemita». E soprattutto una guerra guerreggiata, con i ripetuti attacchi alla missione Unifil in Libano.
Tutto questo in un continuum di violazioni del diritto internazionale che risalgono almeno a quando il sionismo si è rivelato un progetto di colonialismo insediativo. Israele deve la sua legittimità giuridica alla risoluzione 181 dell’Assemblea generale, approvata da 33 Stati sui 56 allora membri delle Nazioni unite.
Da lì in poi ha ignorato o apertamente violato le successive risoluzioni dell’Assemblea e quelle, ben più cogenti, del Consiglio di sicurezza: dalla 242/1967 che imponeva il ritiro dai terrori occupati alla 2728/2024 che ordinava il cessate il fuoco a Gaza durante il Ramadan, mentre gli atti di aggressione contro altri paesi si sono susseguiti nei decenni. Le violazioni del diritto internazionale umanitario sono state la regola, dalle violenze sui civili e dalle deportazioni durante la Nakba all’imposizione del regime di apartheid, all’assassino di leader ostili fino a Haniyeh, Nasrallah e Sinwar; all’orrore di Gaza con l’attacco intenzionale al personale umanitario, medico, dell’informazione, l’uso di civili come scudi umani, la mattanza dei bambini, la distruzione di interi edifici con centinaia di morti civili per colpire presunti «terroristi».
MA IL MOVIMENTO sionista ha fatto ricorso al terrorismo almeno dal 1937 (solo un esempio fra i meno cruenti: le bombe all’ambasciata britannica di Roma nel 1946). E persino un intellettuale incrollabilmente fedele a Israele come Michael Walzer non ha potuto non qualificare come terrorismo gli attentati in Libano attraverso il sabotaggio di cercapersone e walkie-talkie venduti a Hezbollah.
A proposito di filosofi politici, John Rawls usava l’espressione «stati fuorilegge» (appena un po’ più delicata di «stati canaglia» in voga in quegli anni) per connotare i paesi che si pongono fuori dal «diritto dei popoli» e violano i diritti umani. Israele sembra un caso di scuola, eppure il suo governo e le sue forze armate, appoggiati dal fior fiore dei giuristi accademici, sostengono che le sue azioni militari sono legittimate dal diritto di autodifesa e rispettano il principio di proporzionalità.
Forse hanno nostalgia dei bei tempi in cui il diritto internazionale esprimeva «la coscienza giuridica del mondo civile» lasciando il resto del mondo vittima del «libero e spietato uso della violenza». O più probabilmente confidano che la regola dei doppi standard continui ad essere applicata. Ma i tempi stanno cambiando.
Questo articolo è stato originariamente pubblica da il Manifesto, che ringraziamo