di Antonella Olivieri
È stato calcolato che ogni euro speso in difesa si trasforma in una crescita del Pil compresa tra 0,6 e 1,2 euro, ma investire in infrastrutture “paga” di più perché lo stesso euro diventa più di 1,5 euro di prodotto interno lordo incrementale. Intervenire sulla composizione della spesa pubblica, come si vede, è un esercizio complicato, ha osservato l’ad di Mediobanca Alberto Nagel alla presentazione del rapporto dell’Area studi dell’istituto sul settore della Difesa. Fatto sta che la spesa per la Difesa e la sicurezza ha raggiunto lo scorso anno il massimo storico – con 2.443 miliardi di dollari, 306 dollari a testa – a fronte di indicatori di tensioni a livelli paragonabili a quelli dell’11 settembre, dopo la caduta delle Torri gemelle. E se i sensori della Borsa lo registrano, spingendo verso l’alto i titoli della difesa, il Vecchio continente si è trovato immerso nel nuovo contesto relativamente impreparato, perché la spesa pubblica in molti Paesi occidentali è stata indirizzata ad usi civili piuttosto che ad alzare le barriere di Difesa e sicurezza, che non sembravano prioritarie.
Il risultato è che il sistema europeo della Difesa ha una dimensione complessiva pari a un terzo degli Usa, con una spesa di tre volte inferiore a quella dell’altra sponda dell’Atlantico. Per non parlare della tecnologia, visto che in questo campo i Paesi dell’Unione europea investono in ricerca e sviluppo meno di un decimo degli Usa (10,7 miliardi contro 130 miliardi). Un gap che prima o poi dovrà essere colmato. Così almeno sembra ritenere la Borsa che ha portato il rendimento azionario dei titoli continentali sopra la media del settore, che è comunque stabilmente superiore a quello dell’indice azionario mondiale: +21,2% il total return dei titoli europei della Difesa nei primi dieci mesi dell’anno e 20,5% il complesso del settore contro il 15,8% del parametro generale. Da fine 2021 il total return della Difesa, 72,2% a fine ottobre, ha surclassato il ritorno mondiale dei titoli azionari che si è fermato al 20,1%.
L’Area studi di Mediobanca, individuando a livello mondiale i gruppi con ricavi nel settore superiori al mezzo miliardo di euro, ha quantificato per il 2023 un giro d’affari di 615 miliardi (+9,8% sul 2022). Escludendo le società sulle quali non c’è visibilità – si tratta in prevalenza di società asiatiche, a controllo statale e non quotate – l’analisi si è focalizzata sulle prime 40 multinazionali con oltre 1 miliardo di fatturato (17 le europee, 16 le statunitensi) che rappresentano quasi il 60% del giro d’affari complessivo, con ricavi generati nel comparto della Difesa per 355 miliardi nel 2023 (+6,9% sul 2022 e +18,6% sul 2019). Il 68% dei ricavi del campione arriva da gruppi a stelle e strisce, il 27% da società europee, il 5% da società asiatiche.
Solo player Usa nelle prime cinque posizioni: Lockheed Martin (55 miliardi di euro fatturati nel settore difesa nel 2023), Rtx (36,8 miliardi), Boeing (31 miliardi), Northrop Grumman (30,6 miliardi) e General Dynamics (26,8 miliardi). Leonardo, con 11,5 miliardi, e Fincantieri, con 2 miliardi, si collocano rispettivamente in nona e 31-esima posizione nella classifica mondiale. I due gruppi pesano per il 14% del giro d’affari europeo e per il 4% di quello mondiale. La classifica europea è guidata dalla britannica Bae Systems (25,8 miliardi). A seguire Airbus (11,8 miliardi) e Leonardo, terza, mentre Fincantieri è 13-esima. Considerazione generale: in Europa, in un quadro ancora molto frammentato, servirebbe maggiore integrazione e lo sviluppo di poli su programmi sovranazionali per contrastare il deficit strutturale che si traduce in minor focus sull’innovazione e minori investimenti.
Per quanto riguarda l’Italia, sotto i due principali gruppi che sono a controllo pubblico, c’è una miriade di pmi: le prime cento (con fatturato superiore a 19 milioni e più di 50 addetti) mostrano ricavi aggregati (40,7 miliardi) pari allo 0,3% del Pil: il 49% è rappresentato dal comparto aerospace/automotive, il 23,3% dalla cantieristica navale. Le società a controllo statale pesano per il 59,3% dei ricavi, quelle a proprietà estera rappresentano il 25,1% dei ricavi (12,2% Europa, 10,1% Usa). Le aziende a controllo familiare, segnala il rapporto, contano per il 15,6% del giro d’affari complessivo, sono più numerose delle estere e dimensionalmente più piccole. Tuttavia le medie imprese familiari si distinguono per aver intensificato maggiormente gli investimenti negli ultimi anni (+71,9% nel 2021-2023 rispetto al + 46,5% dell’aggregato delle cento società italiane) e per essere più redditizie, con un margine Ebit (nel 2023) pari al 12,2%, doppio rispetto al 6,2% del campione.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato da Il Sole 24 Ore, che ringraziamo