di Michele Giorgio
Spiegano bene la realtà di Israele le parole «sconfitta» e «resa» che i ministri dell’estrema destra Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir usano in queste ore per descrivere l’approvazione dell’accordo di cessate il fuoco con Hamas a Gaza e lo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri politici palestinesi.
È una sconfitta in particolare per Benyamin Netanyahu che per oltre un anno, si è opposto, con pretesti e condizioni fissate all’ultimo momento, alle proposte di tregua formulate dai mediatori arabi e dagli alleati americani.
L’accordo tra Hamas e Israele
Oggi il premier israeliano sta per accettare, con poche differenze, la soluzione avanzata prima dell’estate dal presidente Usa uscente Joe Biden e che aveva silurato reclamando, all’improvviso, il controllo israeliano del Corridoio Filadelfia tra Gaza e l’Egitto. E accetterà lo scambio tra ostaggi e prigionieri palestinesi al quale si è opposto contro la posizione delle famiglie dei sequestrati e di tanti altri israeliani.
Nel frattempo, da maggio a oggi, altre migliaia di uomini, donne e bambini sono stati uccisi da bombe e cannonate nel nord di Gaza e sono morti negli attacchi lanciati dai combattenti palestinesi 122 soldati israeliani (sono più di 400 dal 7 ottobre 2023), un terzo dei quali nell’offensiva contro il campo profughi di Jabalya e la città di Beit Hanoun cominciata lo scorso ottobre. Sono morti anche diversi ostaggi.
A cosa è servito continuare l’offensiva militare se poi, come non pochi avevano previsto, si è arrivati inevitabilmente allo stesso accordo? Solo alcuni degli obiettivi fissati dal primo ministro sono stati raggiunti.
Hamas, cos’è e chi c’è dietro l’organizzazione che combatte Israele
Netanyahu e i suoi ministri dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 hanno scatenato contro i palestinesi di Gaza una rappresaglia crudele. Con il pieno sostegno, è bene sottolinearlo, delle forze armate e di quasi tutta la popolazione. Una gigantesca punizione collettiva, descritta come guerra al terrorismo, alla quale non si sono opposti pubblicamente neppure gli intellettuali israeliani che sono descritti come «pacifisti».
Netanyahu inoltre ha fatto valere la legge del più forte nella regione ridimensionando le ambizioni militari dell’Iran e colpendo Hezbollah, e la sua leadership politica e militare, in Libano, dove da qualche giorno c’è un presidente alleato degli Stati uniti e non ostile a Israele. Ha anche dato una mano, con i bombardamenti aerei in Siria, a creare le condizioni per la rapida avanzata dei jihadisti che tra fine novembre e inizio dicembre hanno abbattuto il potere di Bashar Assad, uno storico nemico di Israele e alleato di Teheran.
Eppure Netanyahu non ha raggiunto il suo obiettivo principale: distruggere Hamas e rimuoverlo da Gaza. Il movimento islamico ha ricevuto colpi duri, ha subito l’uccisione dei suoi capi – Ismail Haniyeh, Yahya Sinwar e Mohammed Deif -, ma combatte ancora a Gaza, infliggendo perdite quotidiane all’esercito nemico, e lancia razzi verso le città meridionali di Israele.
L’affermazione del premier secondo cui solo la pressione militare avrebbe portato al rilascio degli ostaggi, un’affermazione che a volte è stata sostenuta dai comandi delle Forze armate, si è dimostrata infondata. «Salvare la vita di quasi 50 ostaggi prima che muoiano nei tunnel significa rinunciare all’obiettivo dichiarato di continuare la guerra (fino alla distruzione di Hamas)», ha scritto su Haaretz, l’editorialista Amos Harel.
Netanyahu, guardando anche alle perdite crescenti che la guerriglia palestinese infligge al suo esercito, si è piegato. Non ha potuto fare altro. Non solo, con ogni probabilità dovrà rinunciare anche all’idea che sarà Israele a gestire la distribuzione di cibo ad oltre due milioni di palestinesi a Gaza al posto dell’agenzia Unrwa.
I vertici dell’esercito gli hanno spiegato che in quel caso i soldati israeliani diventeranno un bersaglio facile per i palestinesi che lotteranno contro l’occupazione militare. Non è marginale, peraltro, che il premier israeliano sia arrivato alla fine della sua guerra avendo sulle spalle un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità.
Netanyahu andrà alla tregua proclamandosi vincitore pur avendo sofferto una sconfitta a metà. Non farà in modo diverso Hamas. Anche i palestinesi dovranno porsi degli interrogativi fondamentali sul futuro della loro lotta per la libertà e la fine dell’occupazione. Alcuni, giustamente, sottolineano che gli ultimi 15 mesi hanno visto la crescita di un movimento globale a sostegno dei diritti palestinesi e di condanna aperta di Israele sotto indagine da un anno per genocidio alla Corte di giustizia internazionale.
Ma la scarcerazione in cambio degli ostaggi di migliaia di prigionieri politici, tra cui nomi di primo piano – il traguardo che Hamas ha costruito con l’attacco del 7 ottobre e che ora sta per raggiungere -, valeva la distruzione totale di Gaza, la vita di almeno (sono molti di più) 47mila palestinesi tra i quali migliaia di minori, il ferimento di 100mila persone e lo sfollamento di oltre due milioni di civili?
I leader di Hamas sapevano che Israele avrebbe usato la sua potenza militare per colpire senza sosta la popolazione di Gaza? Inoltre, 15 mesi fa Hamas controllava da solo la Striscia mentre in futuro potrebbe essere costretto ad accettare il rientro a Gaza city dei rivali del partito Fatah, spina dorsale dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen che ha arrestato nell’ultimo mese 247 palestinesi nella Cisgiordania occupata usando lo slogan della «legge e l’ordine» pur di compiacere (inutilmente) l’Amministrazione Trump e lanciare segnali concilianti a Israele. Anche i palestinesi sono chiamati a una importante riflessione politica.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato da Il Manifesto, che ringraziamo