Italia al secondo posto in Europa per numero di case sfitte, 2,7 milioni, peggio di noi solo la Spagna con 3,4 milioni di immobili inutilizzati.
Persiane sbarrate, citofoni muti, un cartello esposto e poi dimenticato. «Affittasi», anzi no. Sono tre milioni, in Italia, le case sfitte. Disabitate. Svuotate come il patrimonio dei proprietari, impoveriti da un colosso fiscale che si mangia fino all’80 per cento dei rendimenti e da inquilini che pagano in ritardo, o di punto in bianco smettono di farlo. Così il mattone finisce sbriciolato dalla crisi. E per quanto possa sembrare assurdo e controproducente, aumentano gli immobili né in locazione né in vendita, la maggior parte da anni in attesa di ristrutturazione, altri persino freschi di cantiere. In ogni caso, dimenticati in un limbo che ingolosisce soltanto amministrazioni sforna-imposte. Con il risultato che interi quartieri metropolitani, come borghi di provincia, scivolano nell’abbandono e diventano preda delle occupazioni.
Il Guardian ha assegnato all’Italia l’ennesimo podio di cui non sarebbe il caso di vantarsi. Secondo il quotidiano britannico siamo al secondo posto in Europa per numero di case sfitte, due milioni e settecentomila almeno, peggio di noi solo la Spagna con 3,4 milioni di immobili inutilizzati. Uno scandalo agli occhi dell’opinione pubblica europea, mentre oltre 4 milioni di cittadini dell’Unione vanno in cerca di un tetto sotto cui vivere. Ma le cifre attribuite al nostro Paese, si precisa, sono soltanto delle stime.
Un rapporto della Cgil del 2012 ha quantificato in due milioni le case sfitte nel nostro Paese. Un conteggio al ribasso. L’ultimo censimento dell’Istat, che risale al 2011, conta nel complesso 31,2 milioni di abitazioni: di queste, il 77,3% (oltre 24 milioni) è occupato da almeno una persona residente; mentre il restante 22,7%, poco più di 7 milioni di case, risultano non occupate o occupate da persone non residenti. Vanno quindi escluse le residenze di villeggiatura, pari a circa 3,5 milioni.
Sarebbero dunque 2,7 milioni le abitazioni effettivamente vuote, sebbene la stima dell’Istat sia precedente all’anno di svolta 2012, una specie di anno zero per la tassazione sul mattone oggetto di continue stangate, da quando si riscuote l’«odiata» Imu. È corretto perciò ritenere che ci sia stato un aumento di abitazioni sfitte proprio nell’ultimo triennio e che oggi queste dovrebbero aver raggiunto dai 3 ai 3,5 milioni di unità, intorno al 10% del totale esistente (34,5 milioni sono le abitazioni di proprietà di persone fisiche e di società nel data base dell’Agenzia delle entrate, fotografia aggiornata al 31 dicembre 2012).
Un enorme tesoro male o per nulla sfruttato. A cui oggi, di fronte all’ondata di immigrati in arrivo, sempre più sindaci e prefetti – da Brescia a Venezia, passando per Pisa – guardano con interesse sperando di «risolvere» il problema dell’accoglienza. L’idea? Mettere le case sfitte dei privati a disposizione delle migliaia di richiedenti asilo, offrendo in cambio cifre irrisorie. Naturalmente scatenando la rivolta in quelle periferie già provate dal degrado.
Con otto italiani su dieci proprietari, la casa da bene rifugio oggi è semmai un bunker assediato dal fisco. A partire dalle rendite catastali, aumentate del 5% ai tempi del governo Prodi e del 60% dai tecnici di Monti, mentre l’esecutivo targato Renzi prepara il prossimo sostanziale «ritocco». E da quando le varie Imu-Iuc-Tasi-Tari sono diventate tristemente familiari, possedere un immobile non è più sinonimo di ricchezza garantita. E va ancora peggio a chi, di case, ne ha due o più. Secondo la Cgia di Mestre l’introduzione dell’Imu e poi della Tasi, in tre anni, ha provocato un aumento del carico fiscale del 236% sulle seconde case affittate a canone concordato, del 150% su quelle a canone libero, e del 115% per quelle sfitte. Ecco perché il «gioco» delle locazioni può non valere la candela.
Confedilizia ha raccolto una casistica emblematica della mungitura senza tregua a cui sono sottoposti i proprietari italiani. Prendiamo un’abitazione di Roma con rendita catastale di 1.000 euro, affittata a contratto libero (4 anni +4): nel 2011 si pagavano 735 euro di Ici, oggi 1.889 euro di Imu e Tasi (+157%). Oppure un analogo appartamento affittato però con contratto concordato a canone calmierato (3 anni +2): da 483 euro di Ici a 1.889 euro, praticamente quattro volte tanto (+291%).
Tentare di non finire in rosso è un compito arduo. Figuriamoci quando capita di non riuscire a trovare un inquilino, per mesi, non di rado anni. Nella capitale il proprietario di una seconda casa sfitta con rendita catastale di 1.000 euro, intanto, in base al suo reddito, deve sborsare dai 2.094 ai 2.238 euro per la tenaglia di Irpef, addizionale regionale e comunale Irpef, Imu e Tasi. Situazione paradossale, visto che si tratta di un immobile chiuso, vuoto, che non produce reddito, anzi è fonte di spese condominiali o di manutenzione.
Soldi che il padrone di casa dovrà sottrarre ai propri risparmi, allo stipendio o alla pensione. Oppure, come pure succede, dovrà indebitarsi solo per pagare le imposte. Se poi un immobile trova finalmente la sua collocazione sul mercato degli affitti, il conto da pagare può essere ancora più salato. E qui il fisco sembra praticare un vero e proprio accanimento. Non chiedetelo, per esempio, al proprietario di un negozio e di un locale sottostante a Roma in via degli Zingari 39 (rione Monti). Su di lui si abbattono sette tasse, tra imposte statali e locali, che arrivano a erodere oltre 9mila euro sugli 11.700 del canone complessivo, ovvero quasi l’80%. Se aggiungiamo le spese, e magari un paio di mensilità arretrate in caso di morosità dell’affittuario, in tasca al proprietario resta ben poco (e c’è chi arriva persino a rimetterci).
«L’assenza di redditività – spiega il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa – sta portando alla progressiva riduzione dell’offerta di abitazioni private in locazione. Com’è possibile immaginarsi qualcuno interessato a investire in un immobile o a rinnovare il contratto di affitto, con l’attuale livello di tassazione?
La prospettiva è inesorabile: aumento costante di case, negozi e uffici sfitti, decadimento del tessuto urbano, perdita di attività economiche e di posti di lavoro». Spaziani Testa rilancia: «Con la nuova local tax il governo dovrà abbandonare l’ottica della patrimoniale sul mattone ed entrare in quella dello scambio di servizi. Ma soprattutto serve un limite di legge alle aliquote sugli immobili locati, sia abitativi sia commerciali».
Il fuoco incrociato sulla casa ha inevitabili conseguenze. Il portale Immobiliare.it ha registrato quest’anno un calo del 7,7% dell’offerta residenziale in affitto. Per l’istituto di ricerche «Scenari immobiliari» nel primo semestre 2015 sono 95.700 le abitazioni libere in offerta di affitto (7.200 a Roma, 6.500 a Milano), e 173.350 in vendita, quindi 269mila in tutto sul mercato, pari a 7,8 abitazioni ogni mille esistenti. Commenta il presidente Mario Breglia: «Si affitta poco perché i contratti sono lunghi e i tempi di sfratto (per finita locazione o morosità) sono incerti e dilatati nel tempo. Il carico fiscale negli ultimi tre anni ha poi acuito la crisi. Tanto che solo i proprietari con redditi bassi hanno un parziale beneficio dalla cedolare secca».
Anche i rendimenti – il rapporto fra il canone annuo e il capitale investito per l’acquisto dell’immobile -, dal punto di vista dei locatori, non sono molto incoraggianti. Secondo i dati di Tecnocasa, il rendimento annuo lordo di un bilocale nelle grandi città viaggia attorno al 4,5%; nel secondo semestre del 2014 è cresciuto solo dello 0,7% rispetto a cinque anni prima, mentre è rimasto invariato rispetto a dieci anni fa. Verona e Palermo vantano il rendimento annuo lordo più elevato (5,5% e 5,1%), Roma e Firenze si fermano al 4%, Napoli fa appena meglio (4,1%).
Qualcuno osserverà che un Btp a dieci anni frutta poco più del 2%. Tuttavia va preso in considerazione il rischio «d’impresa» dell’affitto. A Milano, a sentire Confedilizia, al di là di imposte e spese bastano quattro mesi di morosità dell’inquilino per tagliare del 50% il rendimento netto per il proprietario se adotta la cedolare secca, e addirittura dell’80% con la tassazione ordinaria.
Riferisce Fabiana Megliola, responsabile ufficio studi del Gruppo Tecnocasa: «C’è un’attenzione molto alta da parte dei proprietari alla capacità di spesa dei potenziali inquilini. Questo perché la crisi ha determinato spesso casi di mancato pagamento dei canoni di locazione, ragion per cui è in aumento l’interesse per le polizze assicurative a tutela dei proprietari».
Una delle motivazioni del calo dei canoni è proprio la riduzione della disponibilità di spesa dei potenziali inquilini. «I proprietari, una volta individuato un “buon pagatore”, per fidelizzarlo riducono il canone cercando di garantirsi la continuità del pagamento». Ci si inventa sacrifici su sacrifici, insomma, pur di non ricadere nella spirale dell’«affittasi». Chissà a quanto, chissà quando.
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Il Giornale.