Spunta la «regola del 15%» alla banca Popolare dell’Etruria e del Lazio. Una regola che funzionava più o meno così: la banca concedeva 100mila euro di finanziamenti e un istante dopo il cliente che aveva ottenuto il denaro in prestito «investiva» 15mila euro in azioni od obbligazioni subordinate, le due categorie di titoli divenuti carta straccia dopo l’intervento di salvataggio varato domenica scorsa dal governo di Matteo Renzi.
Leggi anche: Salvataggi banche, Padoan risponde al M5S: “Obbligatorio il bail-in. Decide la Bce”
Il dissesto finanziario di uno dei quattro istituti salvati col Fondo di risoluzione di Banca d’Italia, dunque, sarebbe stato cagionato anche da un meccanismo perverso che legava a doppio filo i prestiti a contestuali acquisti di capitale PopEtruria. Secondo quanto riferito a Libero da alcuni imprenditori clienti del gruppo bancario, commissariato a febbraio scorso dopo anni di sbandamento, i funzionari dell’Etruria applicavano parametri rigidissimi nella concessione di fidi o crediti vari. Parametri che, tuttavia, nulla avevano a che vedere coi requisiti di capitale previsti dalla cosiddetta Basilea 3: una percentuale del denaro erogato allo sportello – che di solito era attorno al 15% e talora più alta – doveva di fatto rientrare immediatamente sotto forma di azioni o bond subordinati.
Un sistema già emerso, tra altro, nell’inchiesta penale relativa alla Popolare di Vicenza dello scorso settembre. Nell’Etruria, però, c’era un ulteriore elemento: stando al racconto degli imprenditori, i titoli sottoscritti, infatti, venivano utilizzati, se necessario, come garanzia dei finanziamenti, magari sotto forma di fideiussione. Operazioni che hanno legato le mani ai possessori di azioni e bond rimasti «vincolati» a lungo. Di fatto non era possibile venderli in alcun modo.
E poi, si chiedono i clienti: che fine faranno quei prestiti garantiti da denaro ormai totalmente bruciato? Il rischio è che la nuova banca, quella creata da Bankitalia e governo coi prestiti di Intesa, Unicredit e Ubi (senza dimenticare il costo complessivo di 1,5-2 miliardi a carico dello Stato tra sgravi Ires e garanzia Cdp), possa chiedere «rientri» immediati a chi oggi, in pratica, non ha più le garanzie legate al capitale della vecchia Etruria.
C’è da dire che l’operazione anticrac – attivata anche per Banca Marche, CariChieti e Carife – coinvolge, per quanto riguarda la Popolare dell’Etruria, ben 62mila soci che avevano in mano capitale per un valore nominale di 125 milioni. A pagare il conto, poi, anche 5mila risparmiatori che avevano investito in obbligazioni subordinate per circa 250 milioni. In totale, un salasso da 375 milioni. Il caso Etruria colpisce, in particolare, la città di Arezzo (sede del quartier generale) e la provincia toscana corre il rischio di accusare un contraccolpo durissimo. Soltanto nel territorio aretino sarebbero andati in fumo, stando a primi calcoli, tra i 100 e i 150 milioni di euro.
Il dossier è seguito in prima persona da Francesco Macrì (nella foto), capogruppo di Fratelli di Italia in Comune: «Faccio un appello alla Procura della Repubblica perché scoperchi tutto quello che c’è da scoperchiare. Fdi – dice Macrì – sosterrà iniziative a tutela di risparmiatori e imprese che hanno investito nel capitale della banca». Da Arezzo il caso è rimbalzato a Roma dove il presidente di Fdi, Giorgia Meloni (foto in alto), ha preannunciato «l’inferno» in Parlamento sulla conversione del decreto salva banche: «Una rapina». Si studiano contromisure e una delle ipotesi sul tavolo è una norma che in qualche modo garantisca i risparmiatori più deboli. Le associazioni dei consumatori affilano armi e class action. Molti confidano nelle indagini delle toghe: l’ultima spiaggia è in Procura.
di Francesco De Dominicis
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Libero Quotidiano