Cerchiamo di farla semplice, nella finanziaria di Matteo Renzi contano solo due numeri.
Il primo è cinque miliardi e riguarda l’abolizione totale, per tutti, di ogni imposta sulla prima casa. Il secondo è 12 miliardi e corrisponde all’aumento del deficit pubblico. È mai possibile che per ridurre queste benedette imposte sulla casa dobbiamo indebitarci di più del doppio del loro valore? Il motivo è semplice: si dovevano chiudere buchi che i governi Monti&Letta avevano rimandato ad oggi con ipotesi di aumenti tosti di Iva e accise e che Renzi ha sventato.
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Zero tasse su casa, terreni agricoli e opifici, 80 euro per i dipendenti confermati, aumento a tremila euro dell’utilizzo del contante e altre frattaglie (da vedere bene nel dettaglio nelle prossime settimane) danno il tono di questa manovra. Meno tasse proprio in quei settori che il centrodestra ha sempre rivendicato come suoi. A Palazzo Chigi si sono resi conto che l’effetto delle riduzioni dell’anno scorso, peraltro aggravate da inasprimenti sulle rendite finanziarie, non ha sortito alcun risultato veramente positivo.
Serviva una scossetta. E gli annunci di oggi dovrebbero provocarla. Un prezzo da pagare comunque c’è stato. Ed è la vera scommessa che Renzi fa giocare agli italiani nei prossimi anni. Come abbiamo detto il premier ha ridotto le tasse facendo più debito. A Roma, con saggezza, direbbero «pagando a babbo morto»: insomma, il conto potrebbero doverlo sostenere i nostri figli. Così come i quaranta-cinquantenni di oggi pagano il welfare scellerato dei propri padri. Se l’economia non dovesse prendere la direzione giusta, e cioè crescere a un ritmo del 2 per cento, sarebbero guai. Ecco perché ieri Renzi, che tanto ha combattuto con il Tesoro per affermare la sua linea, si è a lungo soffermato sul previsto (speriamo) calo del debito pubblico nel 2016. Bisogna infine considerare che fino a ieri si abusava del deficit per fare maggiore spesa pubblica, mentre oggi almeno si usa per tagliare le tasse: meglio utilizzare la droga del deficit per il secondo fine che per fare clienti.
Resta un grande (il solito) cruccio. In un paese in cui la spesa pubblica supera il 50 per cento del Pil, si avvicina cioè agli 800 miliardi di euro, non si capisce come sia possibile limitare i tagli alle uscite (spending review) a soli cinque miliardi. O, meglio, si capisce perfettamente: ridurre la spesa è impopolare e soprattutto taglia privilegi e consuetudini stratificate nel tempo di cui la politica campa.
Ps. Attenzione, le finanziarie si possono davvero giudicare solo quando diventano legge, e cioè a metà dicembre, dopo essere passate sotto le forche caudine delle Camere. Soprattutto se un governo è più portato ad épater le bourgeois con gli annunci che con le concrete realizzazioni.
di Nicola Porro
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Il Giornale