I mediocri paradossi della società moderna. “La colpa di ogni inefficienza sarà attribuita al tempo, sempre troppo poco rispetto alle cose da fare. La soluzione che affiora è che occorrono più persone; una volta assunte, non potranno che aumentare l’inefficienza”.
Il lavoro? Questione di paradossi. E’ questa la tesi di Angelo Pasquarella, top manager ed esperto del mondo del lavoro, secondo il quale “più si è incompetenti e più si viene pagati e se si vuole lavorare è meglio non andare in ufficio”.
“L’attuale attività d’ufficio – spiega a Labitalia di AdnKronos – spesso non consiste in volumi di lavori di massa caratterizzati da semplicità e ripetitività. Queste attività vengono sempre più date in outsourcing a piccole imprese di servizi. Le imprese trattengono per sé i lavori più difficili da esternalizzare in quanto a maggior contenuto professionale. Ne consegue che le prestazioni richieste all’operatore consistono maggiormente nella soluzione di problemi che nell’applicazione di procedure ripetitive”.
“Qualche volta – sostiene – per migliorare le prestazioni di una struttura proviamo ad immettere un giovane brillante nella speranza che serva da traino in situazioni stagnanti. Quasi mai otteniamo risultati positivi. L’intervento da fare è nei confronti della struttura nel suo insieme. Qualora un dipendente spicchi sugli altri per capacità ed efficienza, si realizza una sorta di effetto calamita. E’ in questi casi che si realizza il paradosso ‘carica l’asino, finché non si adegua’”.
“L’eccellenza del singolo – ammette Pasquarella – non sopravvive in strutture mediocri. Al contrario, quando il gruppo esprime una media elevata, anche la punta verso il basso tenderà a spingersi verso l’alto o a cercare un’altra occupazione. Per questo, per migliorare la produttività di un ufficio ad alta intensità di conoscenza non serve intervenire sulle punte, ma occorre lavorare sul suo insieme”.
Per Pasquarella, però, esiste anche il paradosso dell’incompetenza. “Esiste in molti di noi – sostiene – una sorta di paradigma attraverso il quale si ritiene che più tempo ci si mette e più un problema è difficile oppure meglio viene svolto. Avere come riferimento il tempo significa accettare concetti come: ‘Più tempo impieghi e più è difficile il compito’. Questo messaggio viene letto così: ‘Più tempo impiego e più viene valorizzato il mio lavoro’, oppure ‘Che lavoro difficile e complesso sto facendo, la mia competenza non ha prezzo’. E di conseguenza: ‘Più si è incompetenti e più si vale'”.
“La mentalità che ne consegue – spiega – disincentiva l’operatore a migliorare se stesso, a trovare nuovi metodi che rendano più celere o efficiente l’attività (non dimentichiamo che il processo intellettuale non è industrialmente predefinito ma determinato dall’operatore) e, nel lungo periodo, rende questo operatore improduttivo”.
“La colpa di ogni inefficienza sarà attribuita al tempo, sempre troppo poco rispetto alle cose da fare. La soluzione che automaticamente affiora è che occorrono più persone che, una volta assunte, non potranno che aumentare l’inefficienza dell’ufficio”, avverte.
“L’unica soluzione è, invece, quella -sottolinea- di premiare la competenza invogliando ognuno ad essere più efficiente e dimostrando che il risultato dell’efficienza va anche a suo beneficio. Vi devono, infatti, essere precisi interessi, stimoli e incentivi al miglioramento che impongono lo sganciamento dalla trappola temporale”.
“Alcune aziende – ricorda – finiscono con il concordare con i propri dipendenti il tempo per il raggiungimento di un determinato risultato atteso. L’efficienza, in questo caso, va anche a vantaggio del dipendente, che potrà impiegare l’eventuale tempo che gli avanza in attività o progetti che lo interessano”.
Angelo Pasquarella sostiene, inoltre, che “se si vuole lavorare non bisogna venire in ufficio”. “Molte aziende – riferisce – sono recentemente arrivate ad imporre ai propri dipendenti il lavoro a casa per due giorni alla settimana, alleggerendo i costi e costringendo i collaboratori a comportamenti più autonomi e pianificati. Nonostante ciò, molte imprese stentano nell’adottare atteggiamenti flessibili sull’orario: si lavora solo se si è presenti”.
“La presenza – assicura l’esperto – è necessaria nella produzione di beni materiali, che non possono che essere prodotti in un luogo materiale. Ci portiamo dietro radicati modelli mentali e siamo orientati comunque alla fisicità del luogo produttivo, anche come espressione della fatica e delle sofferenze legate all’applicazione della gerarchia che, ai nostri occhi, appare giustificare il nostro reddito”.
Per questo, conclude, “nel lavoro postindustriale, anche quando non ve ne sarebbe bisogno, siamo istintivamente portati a doverci posizionare in un luogo deputato al lavoro, diverso da quello associato al concetto di riposo: se lavoriamo a casa ci sembra di non aver lavorato”.