La liquidità immessa da Fed e Bce ha sostenuto le Borse durante la crisi. Ma ora?
Laurence Fink pensa che non finisca qui. «Non c’è ancora abbastanza sangue nelle strade», ha detto l’altro giorno il presidente e amministratore delegato di BlackRock, l’operatore più influente al mondo sui mercati finanziari con 4.500 miliardi di dollari in gestione. William Gross, l’uomo che ha trasformato Pimco in uno dei maggiori fondi globali (prima di lasciarlo nel 2014), annuncia nuove cadute di Borsa soprattutto in Cina e invita tutti a rifugiarsi nella certezza dei titoli di Stato americani.
Probabile che entrambi abbiano preso posizione in modo da trarre vantaggio dagli sviluppi che adesso annunciano. Nessuno dei due ignora il peso delle proprie parole: almeno per qualche ora, o per qualche minuto, sia Gross che (soprattutto) Fink sono in grado di dirigere il mercato nella dirczione che dicono di prevedere. La domanda alla quale nessuno dei due trova facile rispondere è se questo sia un assestamento, o il sintomo di un malessere più profondo. Non tutti la eludono.
All’inizio dell’anno Nevsky Capital, un fondo speculativo londinese da un miliardo e mezzo di dollari, ha scritto ai clienti invitandoli a riprendersi i propri fondi. Dopo più di quindici anni di successi, Nevsky getta la spugna, il fondo aveva avuto un 2015 praticamente inutile, – progressi poco sopra lo zero — eppure dal duemila aveva fatto guadagnare in media il 18,4% ai sottoscrittori. Colpiscono le parole di commiato.
«Le condizioni di mercato potrebbero continuare ad essere difficili per un notevole periodo di tempo», scrive Nevsky, anche perché c’è meno trasparenza («la qualità dei dati si è deteriorata»), mentre i computer con i loro algoritmi distorcono sempre di più le dinamiche con acquisti e vendite automatici su scala esponenziale: «Sono farfalle che con i loro battiti d’ali creano regolarmente uragani che tagliano fuori chi cerca di investire sulla base dei dati di fondo».
Quella lettera di venticinque pagine è diventata virale a Londra, New York, Milano o Francoforte. Forse è perché è proprio così che gli osservatori più attenti stanno leggendo i mercati: vivono una vita parallela al cambiamento climatico. Sempre più spesso il surriscaldamento della Terra crea tempeste improvvise, brevi e di una violenza inaudita. Anche il surriscaldamento dei mercati produce qualcosa di simile: una successione di crash improvvisi, di durata breve, ma di intensità devastante.
Non è successo solo sui mercati azionari quando la Cina aveva cercato di svalutare una prima volta nell’agosto scorso. In maggio si era consumato anche un improvviso crollo dei Bund tedeschi sul mercato dei future. Due anni prima i Paesi emergenti erano stati colpiti da una prima ondata di fuga dei capitali, quando la Federal Reserve iniziò a far capire che avrebbe smesso di creare e immettere sempre nuovi dollari in più. E un ultimo, durissimo uragano si era avuto il tre dicembre scorso, quando la Banca centrale europea ha regalato ai mercati meno liquidità del previsto. In pochi minuti, il cambio fra l’euro e il dollaro quel giorno ha vissuto il terzo più grande spostamento (al rialzo, in questo caso) dall’avvio della moneta unica. Alcuni fondi speculativi hanno perso molte centinaia di milioni in meno di mezz’ora.
Forse, qui c’è un indizio. I battiti d’ali delle farfalle e i successivi uragani tornano sempre più spesso dopo gli annunci delle grandi banche centrali. In fondo non è difficile capire perché. I mercati non sono mai stati così dipendenti da queste. E le banche centrali probabilmente non devono essersi mai sentite così prese in trappola dalla propria stessa generosità. Dal 2008, quando gli ingranaggi dei mercati finanziari cedettero sotto il peso del debito pubblico e privato in Europa e negli Stati Uniti, le grandi banche centrali hanno cercato di evitare una rottura ancora peggiore.
Il bilancio della Fed, negli Stati Uniti, è più che quadruplicato crescendo di 3.500 miliardi di dollari. Quello della Bce è quasi quadruplicato a 2.500 miliardi di euro. I bilanci degli istituti di emissione di Stati Uniti, area euro, Giappone, Gran Bretagna e Svizzera si sono espansi di 9.200 miliardi di dollari in totale da 2008 ad oggi. È una massa di denaro pari a quasi il 12% del prodotto interno lordo del mondo, creata con un click dei computer dei governatori e iniettata nei sistemi finanziari per sostenerli.
È stato il modo più efficiente di diluire nel tempo il trauma di una crisi di debito. Il dubbio residuo è che quella lunga stagione di sedativi oggi sia alla fine, e non solo perché la Federal Reserve ha iniziato ad alzare i tassi d’interesse da quota zero. Per comprendere la fragilità crescente nel sistema, basta vedere a cosa è servita quella massa di denaro sia finita in mercati globali ormai senza confini né frizioni. Il debito pubblico e privato nell’economia globale, invece di scendere, ha continuato a crescere mentre la frenata dell’economia e la pressione verso la deflazione ne rendono la tenuta sempre più precaria.
Gran parte di questo debito è finito nei Paesi emergenti: in Cina per esempio è salito dal 140% del Pil nel 2008 a oltre il 250% oggi. Ciò che complica ancora di più il quadro, è che all’aumento di questi oneri non corrisponde più efficienza o più profitti. Dalla Cina, al Brasile, al Sudafrica, alla Turchia, accade l’esatto contrario: il debito delle imprese ha continuato a accumularsi mentre la loro redditività si logorava sempre di più.
Adesso il punto di rottura non è lontano e lo si è visto quando nel 2014 Janet Yellen, la presidente della Fed, ha iniziato a far capire che avrebbe alzato i tassi: il dollaro si è impennato perché molti hanno preso a fuggire dal mondo emergente verso l’America e questo fattore di fragilità contribuisce a inabissare il prezzo del petrolio. Non stupisce che la Cina ora cerchi di stare a galla con l’export svalutando verso l’euro, la moneta meno capace di difendersi. Ora il finale resta da scrivere. La pressione sulla Federal Reserve (e sulla Bce) per salvare ancora il mondo e posporre la resa dei conti sul debito diventerà presto fortissima. Perché i sedativi delle banche centrali sono come la democrazia secondo Churchill: il sistema peggiore, meno tutti gli altri.
di Federico Fubini
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Corriere della Sera