I giovani non si fidano più degli atenei italiani. Crollo delle immatricolazioni. In calo gli investimenti.
Negli ultimi dieci anni però si assiste ad una netta controtendenza. «In un mercato del lavoro condizionato dalle reti di relazioni e dalla prevalenza di canali informali di reclutamento, l’indagine testimonia che nel corso della recessione la mobilità sociale non è certo migliorata: la crisi occupazionale ha colpito maggiormente chi proviene da contesti meno favoriti, ingessando ancor di più la struttura sociale del Paese», è stato il commento del professor Francesco Ferrante. Parlava al convegno che a maggio si è svolto sul XVII Rapporto AlmaLaurea, “Profilo e la Condizione occupazionale dei laureati”all’Università Bicocca di Milano. «Tra il 2006 e il 2014 il tasso di occupazione dei giovani provenienti da famiglie meno favorite si è ridotto di 10 punti percentuali, a fronte di una riduzione di tre punti per i giovani provenienti dalle famiglie più favorite».
Le retribuzioni dei laureati provenienti da famiglie con laureati sono scese del 13%, quelle di chi ha famiglie con licenza elementare del 20%
Una dinamica simile si è registrata anche per le retribuzioni reali, diminuite tra il 2006 e il 2014 del 13% per i laureati provenienti da famiglie dove almeno uno dei genitori è in possesso di laurea; la discesa per chi proviene dalle famiglie in possesso di licenza elementare è stata invece del 20 per cento. Di conseguenza l’appetibilità degli studi universitari, soprattutto per i giovani provenienti da questi contesti, ne ha risentito e rischia di affievolire ulteriormente il ruolo dell’istruzione avanzata come ascensore sociale. Quella che viene sempre definita “morte dell’università” è sempre di più un dato strutturale: le iscrizioni all’università sono in decrescita, di anno in anno. Nel 2013 fece scalpore il dato dei 58.000 immatricolati in meno rispetto al decennio precedente. Ma non bisogna fermarsi al solo crollo delle immatricolazioni. Infatti, fra il 2015 e il 2014 si sono registrate quasi 70.000 iscrizioni in meno (45.000 solo al Sud); e nel 2014 si registrava un calo rispetto al 2013 di oltre 32.000 iscritti (dato fornito dall’Anagrafe nazionale degli studenti universitari elaborata dal Miur).
Le immatricolazioni per l’anno accademico 2014/15 sono precipitate del 20% rispetto a quelle dell’anno 2004/5. Un calo che è più forte al Sud
Significa non solo che nelle università ci sono molti fuoricorso (per motivi disparati: non è per forza sinonimo di “mantenuto”, dato che molti lavorano), ma che numerosi studenti abbandonano gli studi, non ritenendo indispensabile concludere quel percorso per accedere al lavoro. Calano anche le iscrizioni ai test d’ingresso per le facoltà a numero chiuso (medicina, architettura, veterinaria): meno di 80.000 nel 2015 contro i 90.000 del 2014 e i 115.000 del 2013. Il numero di quest’anno, però, è comunque alto se si pensa che corrisponde a circa il 30% degli immatricolati nello scorso anno accademico.
Chi è il responsabile di questa situazione? L’Udu (l’Unione degli universitari) attribuisce la responsabilità alla riforma Gelmini, uno spartiacque del rapporto tra diplomati e università: secondo Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Udu, «Le prime rilevazioni su immatricolazioni e iscrizioni per l’anno accademico 2014-15 sono in linea con le nostre paure e previsioni. Assistiamo a una consistente migrazione di studenti dovuta allo squilibrio nelle politiche e nei finanziamenti per il diritto allo studio tra Sud e Centro-Nord. E il pesante incremento di numeri programmati ha colpito particolarmente gli atenei meridionali». Quel dicembre 2010 – quando fu approvata la riforma universitaria n. 240 – ha poi coinciso con l’inizio della fase più aspra della peggiore crisi economica italiana dal dopoguerra. Le motivazioni, oltre che politiche, sono anche di tipo economico-sociale. Salvo Intravaia scriveva a maggio su La Repubblica che «la fuga dalle aule universitarie ha in pratica colpito esclusivamente i ragazzi degli istituti tecnici e professionali, prevalentemente figli di famiglie di classi sociali ed economiche più esposte alla crisi», questo per i tagli al Ffo (con la conseguente impennata delle tasse) e ai fondi nazionali e regionali per il diritto allo studio con la legge di Stabilità.
La Crui, la Conferenza dei rettori contraltare degli studenti, rileva nel 2015 la diminuzione di 87,4 milioni di euro per il Fondo di finanziamento ordinario, con tagli, dal 2009, di oltre 800 milioni. Oggi l’Ffo girato dallo Stato alle università italiane rappresenta lo 0,42% del Pil contro lo 0,99% in Francia e lo 0,92% in Germania.
Gli immatricolati che hanno conseguito il diploma in un istituto tecnico o professionale crollano del 45% rispetto a dieci anni fa. Inoltre, per la prima volta, il dato significativo è il calo del laureati, 258.052 nel 2014, 37.616 in meno, cioè il 12,72%, il peggior dato dal 2003-04
Il mutamento del ruolo dell’università e delle prospettive di lavoro offerte da una laurea, è un’altra causa di crisi. La discrepanza fra laureati e i posti di lavoro qualificato disponibili, rende l’università un enorme bacino di raccolta dei giovani della classe media, che aspirano ad una scalata sociale e possono permettersi di sostenere i costi degli studi universitari.
La crisi economica inoltre – e la cura basata su politiche di austerity – ha creato unaforbice geografico-sociale fra Nord e Sud, favorendo l’emigrazione interna dei giovani diplomati meridionali che si immatricolano nelle università settentrionali. Quando il mercato del lavoro diventa più selettivo diminuisce il valore del titolo e aumenta quello delle effettive competenze; gli studenti più motivati (e con i mezzi economici per farlo) cercano di distinguersi, conseguendo titoli più spendibili sul mercato in zone dove le università sono più “competitive”. E nelle facoltà meridionali il calo delle immatricolazioni è stato più accentuato tra i più poveri: in base ai dati dell’Indagine sui consumi delle famiglie promosso dall’Istat, i giovani meridionali provenienti dal quinto di famiglie con livelli di spesa più alti hanno una probabilità di essere iscritti all’università 2,3 volte superiore a quella dei giovani provenienti dal quinto di famiglie con livelli di spesa più bassi; il rapporto tra le due probabilità era più basso prima della crisi. Uno dei fattori di abbandono dell’università infatti – specie al Sud – sono le rette salate, aumentate in maniera esponenziale, e non sempre le famiglie possono permettersi di mantenere uno o più figli per 5 o più anni.
In base ai dati forniti del ministero dell’Istruzione, università e ricerca, dal 2007 al 2013, il costo delle rette è passato da 702 a 769 €, una costante in tutti gli atenei del paese anche se le rette restano inferiori al Sud, dove il tenore di vita è più basso
Inoltre, rispetto agli anni precedenti la crisi e anche per effetto dell’aumento dei costi dell’università, la spesa per istruzione, fra tasse universitarie, libri e costi di mantenimento, è salita dal 7,5 al 9,4% del totale delle famiglie con figli studenti. IlCorriereuniv.it, un bollettino online che da voce agli studenti, riportava il 15 giugno 2015 che le tasse universitarie erano aumentate del 5% nell’ultimo anno. Inoltre “Il dato peggiora ulteriormente se osservato sugli ultimi 10 anni […] dal 2005 ad oggi le università italiane hanno deliberato un aumento esponenziale delle tasse universitarie, di oltre il 50%. In 10 anni siamo passati da una tassazione media di 736,91 euro ad una di 1.112,35 euro, dato da solo utile a smontare una volta per tutte gli assunti di chi sostiene che l’università italiana si quasi gratuita”. «Nel 2012 Monti ha sostanzialmente liberalizzato le tasse studentesche, indebolendo l’unico vincolo normativo che impediva agli atenei di aumentarle liberamente», spiega Scuccimarra alla testata universitaria, proponendo in alternativa una seria riforma del sistema «che riduca il peso delle tasse, soprattutto per i redditi più bassi, e introduca un criterio forte di progressività, omogeneo in tutti gli atenei».
In 10 anni siamo passati da una tassazione media di 736,91 euro ad una di 1.112,35 euro
Ma la forbice non è solo fra Nord e Sud Italia, fra il paese e gli altri d’Europa. Tutti gli indicatori Ocse mostrano che le che le risorse reali destinate all’università nel nostro Paese sono di gran lunga inferiori rispetto a quelle investite in Spagna, Francia, Germania e Svezia. Insomma, siamo il paese che meno investe nell’istruzione e dove gli esecutivi affrontano la crisi con misure improntate al contenimento della spesa pubblica, che include l’istruzione. Facendo pari a 100 la spesa per ogni laureato italiano, La Repubblica riportava che “la Francia e la Spagna spendono 171; la Germania 201; la Svezia 230. Un laureato italiano costa, in termini di risorse pubbliche e private assorbite e a parità di potere di acquisto, la metà di un laureato tedesco e circa il 30% in meno della media dei paesi Ocse”. La decrescita delle iscrizioni all’università è direttamente proporzionale alla decrescita degli investimenti, da non imputare a delle ricette di Bruxelles, ma a errate scelte governative italiane, che non influenzeranno senz’altro in maniera positiva l’uscita dalla crisi. Il finanziamento reale del diritto allo studio da portare ai livelli europei, assieme ad una riforma delle tasse universitarie per ridurle e introdurre criteri uniformi di progressività ed equità a livello nazionale (continuando ad adattarle al reddito), quindi eliminando i numeri programmati per favorire l’iscrizione, potrebbe senz’altro render più competitiva e inclusiva l’università italiana.
Questo articolo è stato pubblicato su Linkiesta