L’Ue ha dichiarato inammissibile la politica fiscale che l’Irlanda ha applicato a Apple, imponendo a Dublino di recuperare 13 miliardi di euro di imposte. Tim Cook ha espresso preoccupazione e ha anticipato che questa decisione avrà ripercussioni sugli investimenti e sui posti di lavoro in Europa.
La faccenda è un po’ più sottile di quanto possa apparire a una prima lettura, perché Bruxelles ha imposto a Dublino di recuperare imposte retroattive e ha fatto riemerge il super potere dell’Ue sulle politiche fiscali degli stati membri. Tuttavia il tema meno dibattuto in questa querelle è relativo alla pressione fiscale americana. Se Apple spostasse a Cupertino i 92 miliardi di dollari che possiede al di fuori degli Stati Uniti pagherebbe il 40% di imposte, ovvero 36,8 miliardi di dollari (32,87 miliardi di euro).
Politiche fiscali e Ue
Un rapporto commissionato dal parlamento europeo e pubblicato a fine gennaio del 2016 ha stabilito che gli accordi fiscali tra gli Stati membri e alcune aziende si traducono in minori introiti fiscali pari a una cifra annua che oscilla tra i 54,5 miliardi di dollari e i 76,4 miliardi (tra i 48,7 miliardi e i 68,3 miliardi di euro). Denaro che viene tolto alle economie locali e che resta nelle casseforti delle aziende.
Il caso Apple non è il primo
Né Apple né le politiche fiscali irlandesi sono le prime a finire sotto la lente dell’antitrust europeo, benché vantino il record di gettito da recuperare. A partire dal 2013, l’Ue ha iniziato un’analisi attenta delle regole fiscali e, nell’autunno del 2015, ha puntato il dito contro Lussemburgo e Olanda, imponendo alle rispettive entità erariali di recuperare circa 30 milioni di euro da Starbucks e da Fiat Finance and Trade, azienda controllata da Fca. Notizia che ha fatto poco rumore perché 30 milioni sono bruscolini rispetto ai 13 miliardi pretesi da Apple ma che si appoggia sui medesimi principi che danno all’Ue pieni poteri esecutivi.
Ciò che ha fatto insorgere Apple, gli Usa e l’Irlanda (anche il popolo è diviso) è proprio la possibilità di Bruxelles di intervenire dall’alto, sovrascrivendo accordi siglati tra le aziende e le entità fiscali dei membri Ue. L’Irlanda, riassume Tim Cook, è obbligata da Bruxelles a recuperare da Apple un importo che non ha mai né chiesto né voluto.
Attualmente l’Ue sta analizzando le posizioni fiscali di Amazon e McDonald’s nei confronti del fisco lussemburghese.
Google
Il fisco francese, quello britannico e quello italiano si sono già scontrati con Google, altrettanto non ha fatto però quello olandese che, nel 2014, in virtù di accordi speciali, ha permesso a Big G di spostare 10,7 miliardi di euro alle Bermuda, senza prelevare un centesimo di imposte. Sempre nel 2014, Google ha dichiarato introiti per 18,3 miliardi di euro versando al fisco irlandese 28,3 milioni. Non sono solo le politiche fiscali ad essere osservate speciali dell’Ue ma anche i numeri rilasciati da Google che, ad esempio, sostiene di dare lavoro a oltre 2.400 persone nella sola Dublino e scarica a bilancio gran parte dei costi di ricerca. Se c’è qualcosa di illegale, però, deve essere stabilito dalle autorità irlandesi.
Ikea
Il gruppo svedese è uno degli osservati speciali, già accusato di avere sottratto al fisco più di un miliardo di euro dal 2010 al 2015, convogliando verso Lussemburgo e Liechtenstein gli utili conseguiti nell’Europa orientale.
Gap
L’americana Gap, che produce e vende abbigliamento, è riuscita a pagare poco più di 4,2 milioni di sterline al fisco britannico a fronte di vendite per oltre un miliardo. Nel 2015 è stato aperto un contenzioso che porterà probabilmente Gap a staccare un assegno da 130 milioni di sterline a favore del fisco.
Microsoft
A fine 2015, The Seattle Times ha ricostruito i flussi che Microsoft impone ai propri introiti per evitare di pagare il dovuto al fisco del Regno Unito al quale, nel 2011, ha versato imposte pari al 2,8% degli utili.
Rischio retroattività
Dean Garfield, Ceo e presidente dell’Information Technology Industry Council, associazione per la difesa dell’industria hi-tech americana, sostiene che Amazon, Dell, Facebook, HP, Intel sono preoccupate dalla decisione dell’Ue e temono di potere essere chiamate a versare anch’esse le imposte retroattive risalenti al periodo tra il 2003 e il 2014.
Fonte: Wired.it