Al ministero del Tesoro romano di via XX Settembre, a due passi della “Taverna Flavia” dove si riunivano i carbonari del gen. Adinolfi per far fuori il premier “incapace” Enrico Letta, del pensiero illuminato e indipendente di Quintino Sella resta ormai soltanto la vecchia scrivania oggi occupata dall’imbelle Pier Carlo Padoan. L’ex funzionario del Fondo monetario che ogni giorno, raccontano gli addetti ai livori, aspetta da palazzo Chigi il menu delle lottizzazioni cucinate a sua insaputa – di fatto è lui il responsabile -azionista in primis delle nomine negli enti pubblici tramutato in passacarte -, dal trio Luca Lotti, Marco Carrai e Andrea Guerra.
Quest’ultimo è un ex manager di Luxottica cacciato dal saggio e illuminato paron Leonardo Del Vecchio e riciclatosi in fretta e furia nelle vesti di gran consigliore (disinteressato?) del piccolo Ceasescu di Rignano sull’Arno. Un superministro dell’economia rimasto prudentemente accorto e defilato durante la crisi Greca per non apparire, è fatto osservare, “da spalla” sciocca e impreparata del presidente del Consiglio. Quel Renzi ridicolo che un giorno sì e l’altro pure sparava cazzate a raffica, ha indotto Padoan a scegliere un profilo basso per non perdere a Bruxelles sia la faccia sia la sua personale reputazione. “Ogni volta che Renzi straparlava sulle tragiche vicende greco-europee, a Pier Carlo venivano certi dolorosi stranguglioni allo stomaco che neppure le sconfitte della Roma di Totti all’Olimpico gli procurano”, racconta chi è in confidenza con il responsabile della politica economica e finanziaria dell’Italia. Una situazione di “frustrazione” che lo stesso Padoan, a quanto risulta a Dagospia, avrebbe fatto presente ad alcuni colleghi e pure al capo dello Stato, Sergio Mattarella. Nulla di nuovo, comunque, per gli uscieri dell’austera sede del Tesoro che ormai ne hanno viste di tutti i colori da quando nel palazzo fatto erigere dal Sella nel 1876, i “politici” sono stati messi al bando.
Alla vigilia dello scorso Natale qualcuno avrebbe visto varcare il portone dello storico edificio, il neo avvocato del Cavaliere, il professorone Franco Coppi, autore e latore – secondo una nostra fonte certa e autorevole -, di un emendamento “salva Berlusconi” da infilare nel nuovo testo della legge sul falso in bilancio in discussione nell’esecutivo. Erano i tempi che al Nazareno Silvio e Matteo filavano d’amore e d’accordo come Berta. E i due non siglavano solo un’intesa sulle Grandi Riforme come andavano spiegando giulivi i giornaloni dei Poteri marciti, confondendoli per due statisti alla De Gasperi nonostante avessero siglato, appunto, un “patto” istituzionale occulto. La notiziola del presunto scambio di piaceri tra il premier e il leader dell’opposizione pluricondannato – rivelata da Dagospia e ripresa con la solita riluttanza dai media -, fu subito smentita dagli interessati. E, sia pure con qualche affanno, anche dall’inquilino di palazzo Chigi che si assunse la responsabilità “politica” di quell’ennesima cazzata politico-istituzionale. Ma togliendo dall’imbarazzo il suo ministro Padoan che prima di quell’incredibile inciucio aveva qualche chanche per andare al Quirinale.
L’onesto e probo Padoan era uno dei “papabili” di Renzi, almeno secondo le voci. Chissà, forse il prode Matteo voleva “sfilarlo” dal Tesoro come aveva già tentato con Letta a palzzo Chigi, ritenendo Enrico più adatto all Quirinale che alla guida del governo, come si ascolta nella telefonata intercettata con il gen. Adinolfi. Ecco spiegata allora allo stesso sommo Eugenio Scalfari qual è, al di là dello squallore della vicenda, la brutale dottrina politica renziana. Un premier che “la Repubblica” di Mauro e Sorgenio De Benedetti continuano a omaggiare a spese dei suoi lettori (in fuga). Già, per Matteo se uno è “incapace” di governare il Paese può diventare “ottimo” guida per andare al Quirinale, considerato dal piccolo Ceasescu di Rignano sull’Arno una sorta di bocciofila. Tant’è, sommo Eugenio.
Negli ultimi vent’anni e dopo la cacciata dell’andreottiano Paolo Cirino Pomicino (Bilancio), è doveroso ricordare pure che al superdicastero economico, ribattezzato Mef per effetto dell’assurdo accorpamento di Finanze-Bilancio-Tesoro, si sono susseguiti soltanto “tecnici” di chiara fama: da Fantozzi a Ciampi; da Padoa-Schioppa a Siniscalco; da Grilli a Saccomanni. E che i professori, con l’eccezione di Giulietto Tremonti che però ancora se ne pente (caso Milanese), hanno lasciato mano libera ai partiti e al premier di turno il disbrigo delle pratiche lottizzatrici. E ai generali delle Fiamme gialle, imperdonabile davvero, la piena gestione della Finanza (e soprattutto delle loro carriere). I Signorotti del rigore “Tagli&Tasse” alla Ciampi, insomma, non avevano tempo per distribuire poltrone (o facevano finta di infischiarsene) dovendosi occupare del nostro buco di cassa che impensieriva tanto l’Europa. Una voragine che il diktat imperioso della Merkel, avrebbe provocato la caduta dell’ultimo presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, scelto dopo una tornata elettorale.
Poi, il solito Bellanapoli ha agito da monarca assoluto. E, facendo strame della Carta costituzionale e delle prassi parlamentari, ha nominato d’imperio capo del governo Monti, Letta e, prima di congedarsi malamente, il ducetto Matteo di cui, sbagliando clamorosamente, si era invaghito. Un’impresa “eroica”, dunque, quella dei supertecnici; dei vari (e avariati) ciampisti e montisti del rigore. Una battaglia fallita, però, clamorosamente. Così, se il debito pubblico oggi ha superato in abbondanza il massimo storico dei duemila miliardi, molto probabilmente il reo dev’essere ancora quello sciupone di politico napoletano Paolo Pomicino. O no? A leggere i giornaloni, che affondano anch’essi nei debiti, sembrerebbe proprio di sì. Tant’è che il nostro deficit resta una calamità nazionale. E nell’Europa dei contabili cinici e bari rischiamo di fare la fine ingrata e umiliante della Grecia.
E anche l’ultimo inquilino di via XX settembre, il mite burocrate Pier Carlo Padoan, che un po’ a sorpresa – e se ne conosceranno forse anche le ragioni, fin qui rimaste nascoste – siede sulla poltrona occupata da Fabrizio Saccomanni nel gabinetto dell’”incapace” Letta, non sembra aver messo una pezza sui nostri conti in profondo rosso. Eppure si tratta di un economista di razza che a Washington, e in nome dell’Italia, ha bazzicato i cervelloni del Fondo monetario internazionale (Fmi). Tant’è che per la sua “promozione” a ministro nel governo Renzi, partorito a quanto pare pure ai tavoli della “Taverna Flavia”, si sono battuti sia l’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sia l’ex leader del Pd, Massimo D’Alema. Le cronache di quei giorni raccontano che il ducetto Matteo reclamava un “politico” di sua fiducia in via XX Settembre. E, comunque, lui era fermamente contrario alla riconferma di Fabrizio Saccomanni appoggiato, fino allo scambio dell’ultima ora con il nome del tecnico Padoan, dallo stesso Quirinale. Perché Saccomanni andava immolato? Forse a causa della sua ferma FERMA OPPOSIZIONE alla promozione del gen. Michele Adinolfi (leggi intercettazioni), a gran capo delle Fiamme gialle? Candidatura sponsorizzata altresì dai Fratelloni&Tavernieri del “giglio tragico”. Ah saperlo!
Questo “report” e’ stato originariamente pubblicato da Dagospia.