«Umberto Eco diceva che la verità è molto più difficile da dimostrare della menzogna. E allora per capire davvero questa storia dei Panama Papers non bisogna soffermarsi sui nomi dei personaggi coinvolti che, per quanto importanti, sono solo la superficie visibile ma bisogna comprendere i meccanismi profondi che ci sono alla base. E alla base c’è che per un servizio di intelligence di medie dimensioni entrare nei server di una società non è un’operazione che richiede una grande difficoltà. L’unico vero ostacolo è di natura politica». Hervé Falciani è stato il protagonista del caso SwissLeaks, un anno fa. Allora a finire sui giornali di tutto il mondo furono i nomi dei clienti della Hsbc Private Bank di Ginevra, uno dei più grandi gruppi bancari internazionali, e l’elenco prese il nome di “Lista Falciani”. Naturalmente Falciani non fece tutto da solo. I file furono prelevati da una rete di persone, ancora oggi non identificate, utilizzando sofisticati sistemi informatici. Per aver rivelato quei nomi Falciani è stato condannato in Svizzera a 5 anni di carcere.
Falciani, perché chiama in causa i servizi di intelligence?
Perché oggi il vero punto importante è l’intelligence economica. Dall’inizio della crisi finanziaria del 2007, poi diventata una crisi economica, la competizione tra i paesi si è accentuata e in questa competizione – in un’economia che ruota sempre più attorno all’informazione – è l’intelligence economica a fare la differenza.
Sta dicendo che vince chi gestisce le informazioni?
Certamente sì. Premesso, dunque, che entrare nei server di una società non è un’operazione difficile, come convincere un capo di governo o un ministro europeo ad andare a prelevare i dati di uno studio legale come Mossack Fonseca? Il problema non è piccolo. Un’operazione di trasparenza verso Panama o verso qualsiasi altro centro di opacità, per un governo europeo è come spararsi sui piedi.
Perché?
Lo si vede in questi giorni cosa sta accadendo ai capi di governo di alcuni paesi europei. Se un governo accetta di prendere quelle informazioni e di indagare rischia di danneggiare se stesso e l’economia del suo paese, visti i personaggi e le imprese coinvolte. Nessun politico europeo o dell’America del Sud prenderebbe mai una iniziativa del genere.
E allora chi può farlo? Chi beneficia dell’operazione Panama Papers?
Nel breve periodo saranno gli Stati Uniti a beneficiarne. La pressione esercitata sugli altri paradisi fiscali fa sì che chi dispone di ingenti quantità di soldi dovrà continuare comunque a lavorare. E con chi continuerà a farlo? Ma con il Delaware, naturalmente.
Dunque, i Panama Papers come SwissLeaks si inseriscono in una competizione globale tra Stati Uniti e altri mercati?
È come sempre una questione di intelligenza economica. Se le transazioni e i flussi finanziari avvengono in Svizzera o a Panama, gli Stati Uniti non controllano quelle informazioni, anche se si tratta di operazioni opache. Spostando questi flussi attraverso il Delaware, ad esempio, gli Usa riusciranno a gestire una massa di informazioni sempre crescente. È un effetto già visto. E guardi che io non vedo nulla di male in questo. Posso sintetizzare con una battuta: facciamo tutti la scelta di essere americani. Meglio che russi, no?
Non c’è fine allora ai paradisi fiscali?
La lotta va fatta localmente. Come un cancro si cura non dall’esterno ma dall’interno del corpo, allo stesso modo bisogna comportarsi contro il cancro economico, cercando all’inizio di optare per una vita sana e solo dopo facendo ricorso alla chirurgia
Da cosa si può cominciare?
Il sistema del Kyc, il Know your customer, che significa conosci il tuo cliente e che obbliga banche e intermediari ad appurare chi è il reale beneficiario economico dei soldi, non funziona. Quando Mossack Fonseca dichiara che aveva relazioni con 14mila intermediari, istituti di credito e avvocati, e che non spetta a loro sapere chi si nasconde dietro i le società scudo, si capisce che questo sistema genera un meccanismo perverso. Le società offshore rendono il Kyc inutile. Ognuno scarica la responsabilità sugli altri. È un balletto che abbiamo già visto.
Eppure la pubblicazione dei primi nomi dei Panama Papers ha suscitato le prime reazioni nell’opinione pubblica…
L’elemento più importante di queste operazioni è che permettono a una quantità sempre maggiore di persone di rendersi conto di come funzionano i meccanismi dell’opacità, del segreto bancario e dei paradisi fiscali. Ed è importante che si comprenda quanto sono semplici questi meccanismi. A Panama, in Svizzera, in Lussemburgo. Non si tratta di nulla di complicato, come si vorrebbe far credere. E poi…
E poi?
Uno degli aspetti più interessanti di questa vicenda è che ora sappiamo che nessun posto è sicuro. Che basta un’email per rivelare tutto. Che è sufficiente che ci sia qualcuno che abbia interesse ad andare a vedere cosa c’è dentro la Mossack Fonseca per ottenere tutto ciò che vuole. E il discorso non vale solo per la Mossack Fonseca.
Vale davvero per tutti?
Benvenuti in Delaware.
di Angelo Mincuzzi
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Il Sole 24 Ore, che ringraziamo
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È saltato fuori anche il nome di Dominique Strauss-Kahn nello scandalo dei “Panama Papers”: l’ex direttore dell’Fmi presiedeva fino all’ottobre del 2014 una società di investimenti lussemburghese, la Lsk, che ha creato 31 società in vari paradisi fiscali. Secondo Le Monde, che ha avuto accesso ai documenti provenienti dallo studio legale panamense Mossack Fonseca, l’ex fondo di investimenti di DSK ha aiutato dei clienti ad aprire dei conti offshore e ad amministrare delle società alle Seychelles, alle isole Vergini britanniche, a Panama e a Hong Kong tramite una filiale battezzata Assya Asset Management Luxembourg (Aaml).
Fra i beneficiari figurano “ricchi francesi, asiatici e un importante gruppo parigino”. Le Monde sottolinea che Lsk, oggi fallita, praticava l’attività offshore prima dell’arrivo di DSK alla sua presidenza nell’ottobre 2013. Dominique Strauss-Kahn è già nei guai con la giustizia per le numerose denunce di ex azionisti di Lsk che sostengono che la situazione finanziaria del fondo che era stato loro presentata al momento dell’investimento non era conforme alla realtà.
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Panama Papers, da Cameron a Putin e Le Pen: leader nella bufera
Il barometro dei Panama Papers ha segnato tempesta nella periferica Islanda. Il suo premier Sigmundur Gunnlaugsson è stato costretto a dimettersi ieri, messo nell’angolo dal conflitto di interessi emerso con i file dello studio Mossack Fonseca. Ma le ripercussioni dello scandalo non si fermano a Reykjavík e stanno investendo la politica europea anche a Londra e Parigi. Senza dimenticare Berlino, alle prese con ventotto banche che avrebbero utilizzato i servizi dello studio panamense creato nel 1977 proprio da un tedesco, Jürgen Mossack, figlio di un membro delle SS.
>>> Leggi anche Panama Papers, Islanda furiosa col premier. Che si dimette
A David Cameron in campagna per sostenere il sì alla Ue i cronisti ieri hanno rivolto solo domande sulla società offshore del padre, morto nel 2010. Nelle stesse ore la Francia leggendo Le Monde, uno dei quotidiani aderenti all’International Consortium of Investigative Journalists che ha svelato i documenti, ha appreso di un tesoro in banconote e lingotti d’oro riconducibile ai Le Pen.
Sorpresa amara anche per la Fifa che credeva di essersi messa alle spalle la bufera dell’era Blatter. Nei file si trova il nome del neo presidente Gianni Infantino, eletto dopo lo scandalo delle mazzette. Il Guardian ha svelato che tra il 2003 e il 2006, quando era direttore degli affari legali della Uefa, Infantino avrebbe firmato contratti per la cessione dei diritti tv insieme a società offshore riconducibili a Hugo Jinkins, secondo gli inquirenti Usa una delle persone coinvolte nell’inchiesta per corruzione.
Se in Europa il terremoto politico potrebbe essere appena iniziato, Pechino con disinvoltura zittisce i media e censura internet impedendo ricerche con la parola Panama poiché dall’archivio finito sui computer dei reporter consorziati è saltato fuori il nome del cognato del presidente Xi Jinping.
Tornando alla vecchia Europa, dove la magistratura può aprire indagini e i media scrivere i nomi, ecco che in Islanda si conta la prima vittima politica. Per 48 ore, senza sosta, decine di migliaia di islandesi hanno protestato, lanciando uova e banane, davanti al Parlamento che aveva già messo in calendario un voto di sfiducia.
Dai documenti panamensi è emerso che il premier quarantunenne, al governo dal 2013, aveva avuto una quota in Wintris, società offshore della facoltosa moglie servita a gestire svariate milioni di dollari («frutto di un’eredità») quattro dei quali investiti in titoli di banche islandesi fallite nel 2008. Il problema è che da primo ministro Gunnlaugsson seguiva i negoziati con i creditori. Prima di lasciare – lo sostituirà un collega di partito, il ministro della Pesca e Agricoltura Sigurdur Ingi Johansson – Gunnlaugsson ha tentato un goffo contrattacco chiedendo inutilmente al presidente della Repubblica di sciogliere il Parlamento per tornare al voto.
In Francia, invece, lo scossone investe l’opposizione frontista dei Le Pen. Riemergono figure discusse, già legate a ipotesi di finanziamento illecito del Front National. Il fidatissimo ex compagno di università di Marine, per esempio, Frederic Chatillon, e Nicolas Crochet, che ne scrisse il programma economico nel 2012. I due, secondo Le Monde, sarebbero stati al centro di un «sistema offshore sofisticato tra Hong Kong, Singapore, isole Vergini britanniche e Panama» mirato a «far uscire denaro dalla Francia attraverso società schermo e fatture false con la volontà di sfuggire al servizio antiriciclaggio». Spunta inoltre il nome del fondatore del National Front, Jean-Marie. La magistratura francese sospettava da tempo che avesse usato una rete offshore per nascondere – dietro al maggiordomo Gerald Gerin e alla sua Balerton Marketing Limited, creata nei Cairabi negli anni 2000 – banconote, titoli, lingotti e altri pezzi d’oro. Si viene ora a sapere che il valore totale ammonta a 2,2 milioni di euro.
Non è l’unico problema aperto in Francia dalle liste panamensi. Il ministro delle Finanze Michel Sapin ha convocato ieri sera i vertici di Société Générale, tra i colossi finanziari che attraverso lo studio Mossack Fonseca avrebbero creato società nei paradisi fiscali per i propri clienti. SocGen, stando a Le Monde, ne avrebbe messe in piedi 979, a fronte delle 2.300 di Hsbc, le 1.000 di Ubs, le 1.105 di Crédit Suisse. La banca sostiene che l’attività offshore sia stata praticata «in modo trasparente nel rispetto delle regole» in materia di lotta all’evasione. Il governo ha chiesto spiegazioni. Tutte le opzioni sono aperte, incluse possibili sanzioni.
di Roberta Miraglia
Fonte: Il Sole 24 Ore
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Dopo il caso Apple-Fbi, si riapre il dibattito sulla privacy
Dopo la vicenda che negli Stati Uniti ha opposto Fbi e Apple, il caso Panama Papers – legato alla diffusione di milioni di documenti che svelerebbero l’esistenza di fondi offshore posseduti anche dalle élite mondiali -, rischia di essere un nuovo terreno di scontro tra autorità giudiziarie e piatteforme di comunicazione criptata. Diversi sostenitori della privacy, scrive The Hill, evidenziano come Panama Papers sia “un esempio chiave di come la crittografia è in grado di proteggere gli informatori”.
Secondo i reporter coinvolti nel progetto, scrive il sito Usa, “decine di ricercatori e scrittori hanno fatto affidamento su piattaforme di chat in anonimato e e-mail criptate per proteggere l’informatore e tenere nascosti i documenti trapelati da Mossack Fonseca, un importante studio legale panamense che avrebbe aiutato persone ricche a mettere al riparo le loro fortune dalle leggi fiscali nazionali”. Ad oggi, il nome dell’informatore non è noto, nemmeno agli stessi giornalisti stessi. Molti di coloro che si stanno occupando dell’analisi e del trattamento di questa enorme mole di documenti – circa 2.6 terabyte, di cui 4,8 milioni di messaggi di posta elettronica, 3 milioni di file di database e 2,1 milioni di file Pdf – hanno detto a Wired che “la crittografia è stata di vitale importanza in questa vicenda, dall’inizio alla fine”.