Sono ore febbrili nella maggioranza che sostiene il governo Renzi. Le tensioni di questi giorni sono legate soprattutto alle indiscrezioni emerse dall’inchiesta della Procura di Roma, che ha scoperchiato un sistema di lobby sotterraneo per tentare di influenzare le nomine nelle società partecipate dallo Stato e l’assegnazione degli appalti, coinvolgendo il parlamentare di Ncd Antonio Marotta, l’ex sottosegretario Pizza e vari altri soggetti. Il lavoro degli inquirenti ha portato alla luce la storia delle presunte raccomandazioni della cricca per far assumere il fratello del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, alle poste con uno stipendio a 6 cifre.
Il fatto che l’ex delfino di Berlusconi, ora stampella di Renzi al governo, sia finito sotto i riflettori delle cronache, ha acuito i malumori tra i maggiorenti di Nuovo centrodestra (rendendo ancora più precari i rapporti interni alla maggioranza), già poco convinti di restare ancora con il segretario del Pd dopo la bruttissima prova offerta dal suo partito alle ultime elezioni amministrative e la lettura dei sondaggi sul referendum di ottobre, che danno il fronte per il “no” alle riforme costituzionali sempre più ampio, che vorrebbe dire fine del governo e nuove elezioni.
Oltretutto venerdì 8 luglio Ixé ha reso noti i risultati di una consultazione: per il 63% degli intervistati Alfano dovrebbe dimettersi e solo il 31% dice che dovrebbe rimanere al suo posto. Troppi colpi da assorbire per una piccola formazione politica che oggettivamente ha ragion d’essere solo se indispensabile per reggere i destini di un Esecutivo, ma che all’opposizione sparirebbe nel giro di un amen, proprio come accaduto ad altri, come Conservatori e riformisti di Raffaele Fitto o Possibile di Pippo Civati, tanto per fare qualche esempio.
Il responsabile del Viminale tutto questo lo sa bene, anche se non lo ammetterà mai pubblicamente. Nel segreto delle stanze dei bottoni, però, questo lo ha ribadito più volte al premier, che finora è rimasto in silenzio sulla vicenda facendo imbufalire l’alleato. Che stavolta per ripicca non ha spento il fuoco delle polemiche interne al suo gruppo, decisamente orientato per il ritorno nel ventre caldo del berlusconismo dopo la fortunata esperienza di Stefano Parisi a Milano. Anche se non ha vinto, la coalizione del centrodestra ha funzionato e la Lega ha fatto il suo senza mai riuscire veramente a toccar palla.
In questo contesto si inseriscono le parole di Roberto Formigoni, che ha chiesto un patto di fine legislatura a Renzi, ma senza escludere un appoggio a un eventuale governo tecnico che porti la legislatura a fine mandato, nel 2018. Perché – e questa è l’altra novità delle ultime ore – Mattarella non ha nessuna intenzione di sciogliere le Camere e mandare il paese alle urne. Non con lo scenario nefasto di avere due leggi elettorali diverse per Camera e Senato e una riforma monocamerale bocciata dai cittadini.
È evidente che con questo scenario chi rimarrebbe fuori dalla partita sarebbe solo Renzi. Perché anche all’interno del Pd gente come Dario Franceschini, abituato a trattare per restare in posizioni di comando, c’è una corsa al riposizionamento. La sconfitta al referendum significherebbe non solo la fine dell’esperienza a Palazzo Chigi, per l’ex sindaco di Firenze, ma automaticamente anche quella come segretario del Partito democratico. E senza lui tra i piedi, i maggiorenti avranno vita facile nel ripetere lo schema A-B-C. Lo stesso che sostenne il governo Monti. E sappiamo tutti come andò a finire quella storia.