Il rispetto dell’accordo di Minsk sull’Ucraina dell’anno scorso – che prevede il cessate il fuoco, il disarmo delle bande armate e la ripresa dei negoziati – è il punto di partenza per riprendere ogni serio rapporto con la Russia. Su questo non ci sono dubbi e probabilmente lo stesso Vladimir Putin è d’accordo.
Il leader russo oggi è in visita in Italia con un programma di incontri cruciali. Primo tra tutti, oltre a quelli con il premier Matteo Renzi e il ministro Paolo Gentiloni, l’incontro con Papa Francesco in Vaticano. Da questi incontri sicuramente scaturiranno conseguenze positive per la continuità di una politica estera italiana che Renzi ha proseguito e Gentiloni condotto sin dal primo momento con grande intelligenza. Il problema vero è se Putin medesimo, per tornare all’Ucraina, sia davvero in grado di controllare il terreno, in una guerra non solo asimmetrica, ma pure ibrida, ossia esercitata secondo le regole della guerriglia anziché della sola guerra di posizione. È una sorta di metafora, l’Ucraina, di ciò che accade sulla scacchiera internazionale, dove le pedine stanno disegnando figure prima inconsuete e ad alta pericolosità di frantumazione della stessa scacchiera.
È vero: Putin in Ucraina deve fare un passo indietro. È vero: sarebbe opportuno non fare manovre militari nel Mar Baltico e le manovre russo-cinesi nel Mediterraneo possono creare apprensione. Tutto ciò è indiscutibile.
Ma il problema vero è che il modo con cui si è risposto al neonazionalismo russo, frutto dell’isolamento in cui Mosca si sente costretta e di cui Putin e il più genuino interprete, è un modo sbagliato. Sanzioni di quel tipo, che incidono profondamente sulle economie, non reggono più nemmeno con la piccola Cuba – peraltro sembrano fatte apposta per assicurare cospicui profitti soprattutto agli speculatori americani di origine cubana – figurarsi se valgono quando l’obiettivo è una grande potenza come la Russia.
È altresì noto che gli Stati Uniti esportano solo una quota modesta del loro Pil in Russia. Ma per l’Europa la storia è molto diversa. Negli ultimi vent’anni il Paese di Putin è diventato, anche grazie all’affermarsi progressivo di gusti occidentali presso le nascenti classi medio-alte, un importante mercato di riferimento per il Vecchio Continente, capace di assicurare ai prodotti europei, specie in fasi di austerità, una notevole capacità assorbimento. Perciò, se le sanzioni dovessero continuare – come ha chiesto con insistenza Barack Obama al G7 di Elmau – alla lunga il danno sarà immenso.
Economico prima di tutto: il fatto che anche la Germania abbia cominciato a porsi domande sulla questione la dice lunga. Come i francesi e gli italiani, anche i tedeschi sono infatti preoccupati per le implicazioni che il blocco commerciale di lunga durata può produrre nella filiera economica europea, già provata da sette anni di profonda crisi.
È paradossale ciò che sta accadendo: da una parte gli Stati Uniti pretendono dagli europei un aumento della spesa militare e un rafforzamento della Nato; dall’altra attuano una politica divisiva appoggiando platealmente prima la politica monetaria di Mario Draghi (invisa alla Germania) e poi le ragioni della Grecia (rigettate dai Paesi che si considerano virtuosi). E così facendo gli americani, paradossalmente, rendono ancora più fragile il fronte anti-austerity. Insomma, un grande disordine e una non coerenza diplomatico-strategica come raramente si erano viste e che gli studiosi della diplomazia globale saranno chiamati a valutare in futuro come percorsi da non praticare.
Peraltro, sembra che gli Stati Uniti abbiano dimenticato che il ruolo storico euro-asiatico della Russia si tiene solo se essa ha ben piantati i piedi in Europa. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, fu infatti l’Europa a fare di tutto perché queste radici europee fossero sradicate, provocando la Russia e facendo crescere in essa il timore dell’isolamento. Il patto tra Ronald Reagan e Michail Gorbaciov era fondato sulla promessa che nessuno Stato confinante avrebbe dovuto far parte né della Nato né dell’Ue. La Russia, soprattutto dopo l’integrazione europea dei suoi ex satelliti animati da un rancore sordo, non solo politico ma anche etnico e culturale, ha visto crescere a dismisura il suo senso di isolamento, di cui Putin – unitamente al risorgere del nazionalismo russo – è l’interprete più intelligente. Il leader russo è un militare e di questa formazione porta tutti i limiti ma anche tutti i pregi, unendo alla visione della guerra e dell’onore quella dell’intelligence: una visione quindi idonea a misurare strategicamente ogni passo tattico.
Ebbene, Putin trasforma il conflitto con l’Europa e la Nato sull’Ucraina e sulla Crimea in una partita di equilibri globali, attento al ruolo euro-asiatico della Russia nel lungo periodo e soprattutto in relazione con l‘insieme del gioco di potenza nel cui contesto l’Europa è solo uno degli scenari, pur se importante. E allora il terreno che si perde a Occidente deve essere riconquistato a Oriente. Ed ecco sorgere il rapporto con la Cina: il problema economico è centrale, quindi, perché inserito in un contesto geostrategico che ne accresce ancor più l’importanza.
In questa luce la politica di Renzi e Gentiloni è quella giusta perché nel solco di un atlantismo utile che misura l’alleanza sulla base delle comuni radici di difesa dell’Occidente e che quindi non dimentica che quelle radici si rinsaldano solo se gli Stati Uniti non ripiegano su se stessi ma hanno a cuore, in senso strategico, le esigenze dei loro alleati. Le sanzioni europee, o le non-sanzioni, diventano dunque il banco di prova su cui si misurerà la capacità di costruire un nuovo ordine mondiale.
di Giulio Sapelli
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Il Messaggero