Il Def, Documento di programmazione economica e finanziaria, come strumento propagandistico in vista di un ritorno alle urne nel 2017. Potrebbe essere questa la chiave di lettura per un testo di cui si conoscono più i rumors dei contenuti, ma che ha avuto finora una sola parola d’ordine: riduzione delle tasse.
Le opposizioni spiegano che non ci sarà nessuna riduzione della pressione fiscale, ma essendo tutta la politica economica del governo in deficit, si tratta di spese e carichi semplicemente spostati dalla generazione attuale a quella dei prossimi anni. Se l’Europa non dovesse – come sembra – concedere flessibilità all’Italia, giusto per fare un esempio mediaticamente spendibile, i conti delle manovre del governo Renzi si abbatterebbero sui bilanci e i business plan dell’Italia di domani: quella del 2018, 2019, 2020 fino a esaurimento dei debiti dovuti alle clausole di salvaguardia. Anch’esse imposte dall’Unione europea e dalla Bce.
Di “rischi” parla anche il vicedirettore generale di Bankitalia, Luigi Federico Signorini, in audizione in Parlamento. “Lo scenario programmatico del Def non può dirsi implausibile sulla base dell’attuale situazione congiunturale, ma resta il rischio di evoluzioni meno favorevoli”. Per il dirigente di via Nazionale “le tensioni geopolitiche potrebbero ripercuotersi sulla fiducia di famiglie e imprese. I mercati finanziari restano soggetti a una forte volatilità”.
Entrando nello specifico, per quanto riguarda il Def in lavorazione alle Camere, secondo quanto trapela, per ridurre il cuneo fiscale che pesa sui lavoratori italiani e per ridare fiato alle famiglie, il governo ha allo studio non solo Irpef, ma anche una serie di misure e provvedimenti che potrebbero vedere la luce già quest’anno, senza aspettare il taglio dell’imposta sui redditi annunciato invece ancora ufficialmente per il 2018. Palazzo Chigi e Tesoro starebbero infatti lavorando da una parte sulla ormai nota riforma della contrattazione aziendale e dall’altra sulla riduzione del carico fiscale sulla previdenza complementare. L’idea iniziale del governo era quella di far confluire le novità nel pacchetto Finanza per la crescita, atteso a maggio, ma la necessità di trovare risorse per la copertura di alcuni interventi potrebbe far slittare le nuove norme all’autunno, in sede di legge di Stabilità.
Proprio la rimodulazione della tassazione sui fondi pensione implica infatti un costo ancora da definire nei dettagli. Con la manovra 2015, l’aliquota è stata portata al 20% per i fondi (dall’11,5% precedente) e al 26% per le Casse di previdenza (dal 20%). Le percentuali riscendono tuttavia rispettivamente all’11% e al 20% nel caso in cui fondi e Casse investano nell’economia reale. Anche se quindi la cosa più logica sembrerebbe quella di riportare genericamente le aliquote al livello pre-2015, l’intenzione prevalente, riferiscono fonti vicine al governo, sarebbe invece quella di mantenere viva la condizione favorevole all’investimento in attività non speculative.
Da qui la probabilità che la riduzione non sia di 9 e 6 punti, ma leggermente inferiore, con la possibilità di ampliare comunque il vantaggio fiscale alle stesse condizioni in vigore oggigiorno.
La prospettiva più ampia a cui si sta lavorando è quella di una riduzione strutturale del costo del lavoro, con un taglio degli oneri contributivi che sia però compatibile con prestazioni previdenziali adeguate. Proprio dalla prossima settimana l’Inps comincerà ad inviare a domicilio oltre 8 milioni di buste arancioni con i calcoli degli assegni per i pensionati che verranno. Al momento la simulazione riguarda solo il migliore dei casi possibili (crescita costante del Pil all’1,5%, secondo le stime della Ragioneria generale, e nessuna interruzione del rapporto di lavoro), ma in futuro potrebbe aggiungersi anche uno scenario meno ottimistico.
L’idea lanciata dal presidente della neonata Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro), Maurizio Del Conte, al vaglio del governo per non intaccare eccessivamente le pensioni, è dunque quella di intervenire con un incremento della deducibilità della previdenza complementare, che oggi non deve superare i 5.164,57 euro. Altro tassello fondamentale allo studio è quello di interventi pro-famiglie più diretti. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, sponsor numero uno del bonus bebè, ha nel cassetto “un investimento sulla genitorialità” che potrebbe arrivare nella prossima legge di Stabilità. “Se non avremo figli – ha detto pochi giorni fa – possiamo inventarci tutti i modelli che vogliamo ma non ci sarà neppure chi potrà fare la produzione per vendere i prodotti”. Lorenzin si è fermata qui, ma il ministro degli Affari regionali con delega alla famiglia, Enrico Costa, si è spinto anche oltre, parlando di “misure per agevolare il secondo figlio”. Una vera e propria rivoluzione in un Paese dove il tasso di natalità è di 1,35 bambini per mamma. L’idea di base è comunque quella di far convogliare tutte le norme e le politiche a favore della famiglia in un Testo Unico, da approvare, secondo quanto stabilito nel cronoprogramma del Def, entro l’anno.
Il problema resta sempre lo stesso: dove si trovano le risorse? Ancora tutto in deficit? Ma soprattutto, se l’Europa non concede flessibilità, come li paghiamo tutti questi conti?
robyuankenobi
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