Ora che il referendum è fallito, cosa accadrà alle famigerate trivelle? Semplicemente non cambierà nulla.
In Legge di Stabilità 2016 – votata con la fiducia dal Parlamento a dicembre 2015 – era stata data la possibilità alle aziende che avevano già un impianto a mare, entro le 12 miglia marine dalla costa, di proseguire l’estrazione di gas e olio anche oltre la scadenza naturale delle concessioni del 2026 fino al completo esaurimento dei giacimenti. E dopo l’esito delle consultazioni, così resteranno le cose.
Non ci saranno nuove trivelle, le piattaforme sono e saranno le 131 già esistenti, mentre le concessioni rimarranno 69: 39 per estrarre gas e 4 per estrarre petrolio e gas. La legge dice – confermata dai referendum – stabilisce dunque che non esistono più limiti temporali, mentre prima della Stabilità 2016 le concessioni duravano al massimo 30 anni (poi ridotte negli anni a 10 e infine a 5) con la possibilità di proroga. Con il mancato raggiungimento del quorum la norma resta in vigore.
Le reazioni
L’eco della consultazione non si è ancora placata. Il day after il clima è ancora infuocato. Il leader della Lega, Matteo Salvini, dice: “Al referendum ha votato il 31,5% degli italiani. Renzi esulta, Napolitano esulta, i petrolieri esultano. Vince l’arroganza. Non esultano gli italiani a cui Renzi, non accorpando il Referendum alle altre elezioni, ha fatto sprecare 300 milioni”. Il suo governatore del Veneto, il leghista Zaia, va oltre: “Dal punto di vista giuridico è inevitabile che ci sarà qualcuno che ricorrerà all’Europa perché questo è lesivo della libera concorrenza: se una concessione non scade mai chi prima arriva meglio alloggia”. Duro anche Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera: “I 16 milioni di cittadini italiani che hanno votato il referendum sulle trivelle, che abbiano votato ‘sì’ o che abbiano votato ‘no’, hanno disobbedito a Renzi e sono la base per vincere il referendum confermativo sulla riforma costituzionale del prossimo ottobre”.
>>> Leggi anche Referendum trivelle fallito. Niente quorum: al voto il 31%. Renzi: dimostrazione che demagogia non paga
Reazioni forti anche in casa Pd, con in testa l’oppositore numero del premier-segretario, il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano: “È stato uno straordinario successo. Siamo andati ben oltre, è il secondo referendum più partecipato negli ultimi 15 anni, dopo quello sull’acqua. È più di quanto ha preso il Pd alle elezioni europee del 2014”. Rincarando anche la dose, dopo un apparente segnale distensivo: “Io non faccio battaglie contro Renzi anche perché Renzi è il presidente del Consiglio e ho il dovere di leale collaborazione come scritto nella Costituzione, quindi il presidente può contare su di me – ha affermato Emiliano -, ovviamente deve evitare di fare favori a lobby soprattutto quelle pericolose per l’ambiente, perché in quel caso sarebbe mio dovere…”, alludendo a nuovi scontri politici o, addirittura, a denunce penali.
——————–
Petrolio, il “fiasco di Doha”: è ancora un business appetibile?
Lo si potrebbe ribattezzare “il fiasco di Doha”. A sorpresa è fallito l’atteso supervertice dei produttori di Petrolio, voluto per formalizzare una intesa sul congelamento dell’offerta ai livelli di gennaio, una manovra che voleva tamponare l’eccesso di produzione che ha fatto precipitare le quotazioni dell’oro nero. Dopo ore di discussioni l’intesa non è stata raggiunta e le riunioni si sono concluse con uno stallo. Secondo alcune ricostruzioni la “colpa” sarebbe del riaccendersi della rivalità tra Arabia Saudita e Iran. La reazione dei mercati in avvio di settimana è stata netta: prezzi in picchiata. Il barile di Brent, il greggio di riferimento del mare del Nord cala di 1,16 dollari rispetto alla chiusura di venerdì, a 41,94 dollari e dopo un minimo a 40,10.
I futures in prima scadenza sul West Texas Intermediate cedono 1,33 dollari, a 39,03 dollari e con un minimo a 37,61. Inizialmente, le quotazioni sono arrivate a perdere fino al 6 per cento e secondo diverse indiscrezioni di stampa la pioggia di vendite riflette anche la ressa a ricoprirsi di molti fondi speculativi, che avevano piazzato scommesse rialziste sull’oro nero, improvvisamente in pesante perdita.
Fino a pochi giorni fa un esito positivo di questo vertice in Qatar veniva dato sostanzialmente per scontato. I Paesi dell’Opec e gli altri maggiori produttori globali, a cominciare dalla Russia, avrebbero semplicemente dovuto stabilire di non superare la produzione da record raggiunta lo scorso gennaio. Il fatto che qualcosa avrebbe potuto non filare liscio lo aveva suggerito l’annuncio dell’Iran sulla non partecipazione al vertice. Teheran è da poco tornata ufficialmente sul mercato, con il venir meno delle sanzioni internazionali, e deve ancora far risalire la sua produzione ai livelli pre embargo.
Per questo era stato ipotizzato che a sua favore venisse previsto un meccanismo di controllata esenzione. Evidentemente però un accordo non c’era e nel corso delle discussioni è via via emersa una netta ostilità dell’Arabia Saudita, primo produttore mondiale e storico rivale dell’Iran, sciita, laddove i sauditi sono a maggioranza sunnita. Ora non è chiaro come uscire da questo stallo. Secondo il Financial Times non è del tutto svanita l’ipotesi di un accordo entro la fine dell’anno. Tuttavia a questo punto l’eventuale manovra di tutti i produttori potrebbe rendere necessaria una decisione unanime preventiva a livello di Opec.
Russia: 40 dollari al barile è “prezzo reale”
Il ministro dell’Energia russo Aleksander Novak, è stato chiaro: “Il prezzo del petrolio a 40 dollari al barile rispecchia la reale situazione del mercato”. Novak ha poi respinto la ricostruzione giornalistica su una possibile influenza americana dietro il no di Riad. “Non abbiamo prove che confermino questa teoria”.