Catalogna indipendente, una vittoria che scuote Bruxelles e la Troika. Se le piazze erano piene, pienissime, le urne non hanno tradito, con tanto di affluenza record, 77%. Al Born, nel cuore ribelle del centro di Barcellona, si abbracciano tutti: «Magari non domani mattina, ma presto ce ne andremo». Piangono gli anziani che in ogni frase rievocano Franco, «non potevamo nemmeno parlare la nostra lingua», saltano i giovani, che spagnoli non si sono mai sentiti «guardateci, cosa c’entriamo con quelli?».
Per la strada alcuni festeggiano, altri restano a casa, ma lo sconcerto è condiviso: «Che succede domani?» si chiedono pensando a tutte le catastrofi che i nemici dell’indipendenza hanno preconizzato, banche in fuga e Europa ostile.
Festa a metà
La Catalogna, pur spaccata a metà, ha scelto gli indipendentisti, sbattendo la porta in faccia a Madrid, in un plebiscito mascherato, che scuote e sconvolge la Spagna. I partiti anti Madrid raggiungono il risultato che si erano preposti: ottenere la maggioranza assoluta dei seggi al Parlamento di Barcellona, che a breve dichiarerà aperto processo verso l’indipendenza.
Nella festa, tra brindisi e bandiere, ci sono però molte ombre che avanzano: la vittoria – con il 94% delle schede scrutinate – della lista Junts Pel Si (39,6%, 62 seggi) è netta se si guardano i seggi, molto meno se si contano i voti: il 47%, tanti in un voto regionale, pochi in un plebiscito, come è stata ribattezzata questa elezione.
Mas era stato chiaro nelle scorse settimane: «Con la maggioranza nell’assemblea c’è la piena legittimazione per cominciare il nostro cammino verso la secessione». E ieri sul palco circondato dai supporter ha detto: «Oggi ha vinto il sì, e ha vinto la democrazia, l’indipendenza è legittima». Ma l’argomento, per gli avversari interni ed esterni è pronto: «Più della metà dei catalani non vuole l’indipendenza».
Schiaffo al premier Rajoy
Si apre così uno scenario inedito, un terreno minato per tutti. In ogni caso per Madrid questo voto è un disastro, la prova che quelle manifestazioni oceaniche che dal 2012 a oggi riempiono le strade di Barcellona ogni 11 di settembre, non erano un’esibizione folkloristica. A uscire con le ossa rotte è soprattutto il Partito popolare di Mariano Rajoy, che, a tre mesi dalle elezioni politiche, si ferma all’8,5 per cento, doppiato da Ciudadanos (17,9%, 25 seggi), la nuova forza moderata del giovane Albert Rivera, che si rivela come la seconda forza del Parlamento catalano.
I socialisti, pronti a una sciagura, perdono seggi e voti, ma non la dignità: 16 seggi, «abbiamo salvato i mobili», scherzano al comitato elettorale. Non fa una gran figura Podemos, che si è presentata con il nome tradotto in catalano «Sì que es pot», gli indignados di Pablo Iglesiasottengono appena il 9 per cento dei voti, troppo poco per contare qualcosa.
Decisiva l’estrema sinistra
Da oggi però anche la strada di Mas sarà tutta in salita e non solo per il prevedibile scontro con i tribunali di Madrid. Per governare, il presidente uscente della Generalitat ha bisogno del sostegno della Cup (8,1%, 10 seggi), un partito anticapitalista, favorevole alla disconnessione della Spagna («Non riconosciamo più il governo di Madrid», spiegava ieri notte il leader David Fernandez), ma contraria a ogni privatizzazione, che è passata da due seggi a dieci.
Le differenze tra Cup e Convergencia (il partito di Mas) sono vistose, estrema sinistra e centro moderato, un matrimonio innaturale. Il presidente, vincitore a metà, aveva vissuto una giornata tesa già al seggio: dopo aver posato davanti all’urna due estremisti di destra hanno fatto irruzione con una bandiera spagnola, breve rissa e tanti flash. Antipasto di una guerra che comincia stamattina.
Gli scozzesi
Dopo la sconfitta referendaria di un anno fa, la leader del partito nazionalista Nicola Sturgeon ha chiesto nuovamente alle opposizioni di sostenere la campagna per una seconda consultazione. Le hanno risposto «picche», per ragioni politiche più che altro. Il sentimento di indipendenza, ma non di uscita dall’Ue, resta forte oltre le Highlands. Presto o tardi si rivoterà, evenienza che la Sturgeon usa per minacciare Cameron che vuol tagliare le pensioni. E gli inglesi per rimanere in Europa.
I baschi
È un problema spagnolo, anche se l’area di influenza sconfina in Francia, oltre i Pirenei. Dal 2011 i terroristi dell’Eta non colpiscono più. Il partito nazionalista basco, nato nel 1895, ha cercato nel 2008 di convocare un referendum, ma il governo centrale non lo ha permesso. L’esempio catalano ravviva gli spiriti di una regione che sta negoziando una autonomia sempre maggiore nei confronti di Madrid. E il premier regionale Inigu Urkullu ha richiesto giusto ieri che si arrivi a un «autogoverno».
I Fiamminghi
In Belgio, i fiamminghi del N-Va parlano di dividersi dai valloni e spaccare il Belgio molto più spesso di quanto facciano gli elettori. A seconda dei sondaggi, gli scissionisti raramente superano il 20%. Fra i sei milioni delle Fiandre e i cinque della Vallonia, ci sono diversità economiche e culturali profonde. Filippo è il «re dei Belgi» e ne garantisce l’unità. Il buon risultato alla Coppa del Mondo in Brasile ha giocato da inatteso collante. La complessità di scrivere il futuro di Bruxelles frena molti entusiasmi. Divorzio possibile, certo. Ma non in vista.
La Slesia
Il Movimento per la Slesia autonoma invoca l’indigenza all’interno dell’Ue per la regione dalla tradizione industriale e mineraria che si trova a est di Cracovia. L’anima tedesca resta forte. Al voto locale del 2010 la formazione ha ottenuto il 10% dei consensi, il doppio rispetto alla tornata precedente. Potrebbe crescere ancora, senza la forza per ridisegnare il Paese.
Gli altri
Altri possibili secessionisti. I bavaresi sono stati tentati di non restare in Germania dopo la guerra: i sondaggi dicono che un cittadino su cinque ci pensa ancora, ma il Bayernpartei resta una cosa piccola. In Corsica c’è chi spera di riprovare a dire «adieu» a Parigi, dopo il fallito referendum del 2003: ipotesi lontana. Un sentimento indipendentista è diffuso in molte aree, dal Galles alla Bretagna, dalla Frisia alla Savoia, dall’Aragona alle finlandesi Åland. Dibattito e nulla di più. Almeno per ora.
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ronin
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Di FunnyKing
http://www.rischiocalcolato.it/2015/09/catalogna-hanno-vinto-i-separatisti-e-hanno-il-511-del-totale-dei-voti-validi-il-processo-di-secessione-puo-legittimamente-iniziare.html
Ieri sera abbiamo scritto che i separatisti NON avevano il 50% dei voti.
Era un errore e ce ne scusiamo, non avevamo messo nel conto il terzo partito separatista che però NON fa parte della coalizione di governo ovvero, Unió Democràtica de Catalunya (UDC…ehm no, Casini non c’entra).
La realtà la vedete rappresentata qui sopra nel grafico ovvero:
I partiti separatisti hanno preso il 51.01% dei voti
La coalizione separatista di governo il 48,5% e governerà con 73 seggi su 135.
Quindi il dado è tratto, le precondizioni mandatorie per iniziare un processo di secessione (oppure l’ottenimento di una amplissima autonomia e un residuo fiscale nullo) ci sono.
Ovviamente non si è celebrato un referendum, e dunque non è affatto detto che TUTTI gli elettori dei partiti separatisti avrebbero votato per la secessione ma è ancora meno (molto meno) detto che tutti gli elettori degli altri partiti avrebbero votato per restare spagnoli.
Si apre adesso una fase veramente interessante della storia europea e spagnola.
Forza Catalogna, w i Catalani.