Un assegno ridotto in modo progressivo dal 2% in su per chi lascia prima. Laurea, riscatto modulare. Che significa “compensazione parziale da parte dello Stato”.
Il punto preciso di approdo non è stato ancora trovato. Ma la rotta è cambiata. Il ministro del Welfare Giuliano Poletti dice che la famosa flessibilità sulle pensioni – cioè la possibilità di lasciareVuoi la pensione? Ecco che succede ora il lavoro prima rispetto alla soglia fissata dalla Legge Fornero – non deve essere «a costo zero». Chi esce prima deve sì accettare un assegno più basso, insomma, ma ci deve essere un compensazione parziale da parte dello Stato. È un cambio di passo non da poco. Fino a due giorni fa il governo aveva sempre detto che la flessibilità si dovesse autofinanziare, senza toccare il portafoglio dello Stato. Non tutti nella maggioranza la pensano come Poletti. Ma quella del ministro non è una mossa isolata. Il ragionamento è in corso e alcune idee sono già sul tavolo. La vera novità sta nella prima ipotesi.
Finora chi parlava di flessibilità si riferiva sempre alla vecchia proposta di Cesare Damiano e Pier Paolo Baretta, Pd. Dice quel testo che la pensione deve subire un taglio del 2% per ogni anno di anticipo rispetto alla pensione «normale», oggi fissata a 66 anni. L’idea è che il taglio non sia più fisso, sempre il 2% per ogni anno di anticipo. Ma cresca progressivamente con il numero degli anni di anticipo. Un esempio per capire: per chi esce un anno prima il taglio sarebbe del 2%, per chi esce due anni prima del 5%, per chi anticipa di tre anni dell’8%. E così via. I numeri cambieranno ma il principio del taglio progressivo sembra fin da ora un punto fermo. La soluzione avrebbe il vantaggio di ridurre i costi e quindi il volume delle coperture che il governo dovrà trovare nella legge di Stabilità. Ma avrebbe senso anche dal punto di vista dell’equità, perché spingere soprattutto la flessibilità «minima», e cioè l’uscita di chi è comunque vicino al traguardo della pensione piena. Non è un caso che proprio ieri lo stesso Damiano – presidente della commissione Lavoro della Camera – sia tornato a difendere la sua proposta, sia pure nella versione originale.
Prima dell’estate il presidente dell’Inps Tito Boeri aveva detto che un intervento del genere sarebbe costato 8,5 miliardi di euro. Cioè troppo. Ma secondo Damiano, ex ministro del Welfare, «quella stima è irrealistica perché ipotizza che tutti i lavoratori con 62 anni di età e 35 di contributi decidano di andare subito in pensione». E poi, secondo Damiano, «l’Inps non ha tenuto conto dei risparmi in termini di meno cassa integrazione, meno mobilità, e meno poveri da aiutare».
La flessibilità, però, non va intesa solo come taglio dell’assegno più o meno pesante per chi esce prima. «L’obiettivo – spiega Maurizio Sacconi (Ncd) anche lui ex ministro del Welfare, ora presidente della commissione Lavoro del Senato – è evitare l’ipotesi del ricalcolo contributivo». Significherebbe tagliare l’assegno di parecchio, anche del 30%, perché si terrebbe conto non del livello degli ultimi stipendi ma dei contributi versati nel corso della vita lavorativa. «Avrebbe un effetto devastante – continua Sacconi – sia sulla fiducia nel Paese sia sui consumi. Insomma sarebbe un disastro».
Per questo, allo studio del governo, ci sono altri meccanismi che consentirebbero di far salire un po’ l’assegno previdenziale. Non solo a chi esce prima, in questo caso, ma a tutti. Il primo meccanismo riguarda il riscatto della laurea. Oggi chi ci pensa quando già lavora da un po’ di anni si vede presentare un conto salatissimo. E questo perché la somma da versare viene calcolata sulla base dello stipendio che prende adesso. L’idea è introdurre un riscatto «modulare», potendo decidere quanto versare e quindi anche di quanto far crescere la pensione futura. L’altro meccanismo riguarda gli «scivoli» concessi ai lavoratori che chiudono un accordo con l’azienda per l’uscita anticipata. Oggi sono gli stessi pre pensionati a pagarsi i contributi con i soldi ricevuti dall’azienda, soldi sui quali paga le tasse sia lui sia l’azienda stessa. L’ipotesi è che sia direttamente l’azienda a versare i contributi, anche se quello tecnicamente non è più un suo lavoratore. La somma inoltre non solo non sarebbe tassata ma potrebbe essere anche scaricata dalle tasse.
I lavori sono in corso e sul tavolo arriveranno altre proposte. Il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti, Scelta civica, frena: «La spesa pensionistica è già molto alta». Ma i sindacati guardano con molto interesse ai nuovi segnali: «Non bisogna penalizzare i lavoratori», dice per la Cgil Susanna Camusso, le «soluzioni devono essere digeribili e congrue» aggiunge Annamaria Furlan, Cisl. E sulla questione torna anche il presidente dell’Inps, Tito Boeri: «Un po’ di flessibilità in uscita verso la pensione sarebbe di aiuto per l’occupazione giovanile». Per una volta ministro ombra e ministro vero sembrano d’accordo.
di Lorenzo Salvia
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Corriere della Sera